Oggi, come da dodici anni a questa parte, il mio cane doveva andare di corpo. Così ho preso il guinzaglio e uno stupido sacchetto raccogli-merda, ho ingoiato la mia quotidiana pasticca di Sertralina e ho portato Vincent a fare un giro dell’isolato.
Tornando a casa siamo passati davanti a una casa che sta sulla mia stessa via, ma dal lato opposto. Da casa mia disterà sì e no cinquecento metri. Ha un cortile davanti e anche un giardino ben curato con ficcate per terra una decina di quelle lampade che si caricano con la luce solare e che, di notte, illuminano poco o niente. Prima ci abitava una vecchia che ora non so bene se è morta o se è stata sbattuta dai figli in qualche ospizio, fatto sta che da circa un mesetto ci si è trasferita una famiglia che ha un figlio sulla sedia a rotelle. Non so bene cos’abbia il ragazzo, so solo che avrà circa una quindicina d’anni, indossa gli occhiali e che non parla, né riesce a muovere gli arti superiori con facilità. Questo lo so perché ho avuto modo di vederlo spesso, infatti tutti i pomeriggi i genitori lo parcheggiano davanti casa, sul cortile. Da solo, a guardare la strada e chi vi passa.
Io, passando con Vincent, ho provato più volte a salutarlo, ma lui, nonostante mi fissasse, non mi ha mai restituito il saluto, nemmeno con una minima espressione facciale.
Robert, il mio dirimpettaio, dice della famiglia del ragazzo che “è gente che è meglio lasciar perdere”. Sì, mi ha detto proprio così, qualche giorno fa, mentre annaffiava i suoi gerani. Ho provato a capire cosa intendesse con quella espressione, ma lui ha sviato la domanda e ha cambiato discorso. Sinceramente non me ne fregava più di tanto capire cosa volesse dire, così mi sono messo a parlare con lui dei Cleveland Indians senza menarla più di tanto.
A dire il vero, oltre al ragazzo sulla sedia a rotelle, in quella casa non ho mai visto nessuno. E’ come se quel ragazzo si materializzasse lì da solo. Ma forse il fatto è che i miei orari di lavoro al KFC non combinano con gli orari della sua famiglia. Non so.
Ad ogni modo, anche oggi il ragazzo era là. Fermo, immobile, imperturbabile. E anche oggi, al passaggio mio e di Vincent, il suo sguardo è stato fisso sempre su di noi. Ma non l’ho salutato, ho smesso di farlo. Non essere contraccambiato mi faceva sentire stupido. Come salutare un muro. Ho salutato invece un vecchio che ci veniva incontro. Non lo conoscevo, ma somigliava tremendamente a mio nonno. L’ho fatto quasi spontaneamente. Il signore si è fermato, appoggiato al proprio bastone, per guardarmi, per cercare di capire chi fossi. Senza riuscirci. Poi però mi ha salutato comunque, nonostante la mia faccia non gli dicesse nulla. Probabilmente a quell’età succede che non riconosci molte delle persone che ti salutano, e tu devi salutarle comunque, perché altrimenti faresti una figuraccia e devi farlo nel modo più convincente possibile, per far vedere che non ti sei del tutto rincoglionito. Il vecchio mi ha restituito un saluto diviso a metà, a metà tra il “Grazie giovanotto che mi hai salutato, al giorno d’oggi sono pochi i ragazzi educati come te”, e il “Chi diavolo sei ragazzo? Non ti conosco, forse sei un amico di mio nipote, o forse addirittura sei proprio mio nipote, fatto sta che non ti riconosco proprio per niente”.
Ho passato la casa del ragazzo, e ho passato il vecchio, e poco dopo ero a casa.
Il cielo era sereno e, per qualche strana ragione, anche io lo ero.
Dieci minuti dopo, mentre mi stavo mangiando un tramezzino con tonno e maionese, ho sentito un tuono. Uno di quelli secchi, che fanno scrocchiare il cielo. E come se fosse stato lo sparo che dà il via alle gare podistiche, è iniziato a piovere. Dapprima lievemente, qualche goccia che batteva sul tetto, poi la pioggia è iniziata a cadere con violenza.
Mi è venuto in mente il ragazzo sulla sedia a rotelle. Sarà rientrato, o meglio, qualcuno lo avrà fatto rientrare, mi sono chiesto.
Ho finito il tramezzino e sono salito in camera. Mi sono iniziato a spogliare con l’intenzione di farmi una doccia e la vana speranza di togliermi un po’ di dosso l’odore del pollo fritto del KFC.
Mentre mi toglievo le mutande, per caso, ho guardato fuori dalla finestra. E l’ho visto. Ma non ero sicuro fosse lui, d’altronde c’era una bella distanza, c’era la pioggia, e c’era anche il fatto che era davvero improbabile.
Ho preso dal cassetto del comodino il binocolo, che uso solitamente per spiare la mia vicina cinquantenne mentre prende il sole nel suo giardino sul retro, e ho guardato meglio.
Sì, era lui, il ragazzo sulla sedia a rotelle. D’altronde chi altri poteva essere?
Era fermo sullo stesso posto dove lo avevo visto prima, dove lo vedo da settimane ormai. Col binocolo riuscivo addirittura a vedere lo sgocciolare della pioggia dai suoi capelli arricciati dall’acqua.
Era immobile, sempre con lo sguardo sulla strada, e gli occhiali appannati. Ogni tanto muoveva il braccio sinistro, e un poco anche la testa, ma niente più.
Dai, ora qualcuno esce e lo porta dentro. Sicuro, mi sono ripetuto più volte.
Un lampo, e poi un tuono.
Ora hanno sentito il tuono e sicuro vengono a prenderlo per portarlo dentro, magari stavano dormendo e non se n’erano accorti. Sì è così, deve essere così.
Dopo circa cinque minuti era ancora lì.
Allora ho iniziato a dirmi cose del tipo, Ora vado io e lo porto dentro, busserò alla porta e mi farò aprire, e se non mi aprono o non c’è nessuno in casa troverò il modo per metterlo al riparo.
Poi però mi è tornata in mente la frase di Robert circa la famiglia del ragazzo, e cioè che “E’ gente che è meglio lasciar perdere.”
Così i miei pensieri sono stati dirottati in un altro senso.
E se vado poi magari si incazzano? E se magari mi dicono che devo farmi i cazzi miei? Quante volte si sono sentite storie di persone che per fare del bene alla fine c’hanno solo rimesso. E se lui fosse contento di stare sotto la pioggia?
Lampo. Tuono.
La pioggia è diventata grandine. Ora il ragazzo si muoveva di più, animato, credo, dal pungere del ghiaccio che cadeva in picchiata sul suo corpo.
Andrei, davvero lo farei, ma non vorrei avere noie.
Ho tergiversato per qualche minuto. Intanto la grandine è tornata pioggia e la pioggia è iniziata a diminuire, sempre più, fino a cessare.
Il cielo si è aperto, ed è tornato il sereno.
Allora ho rimesso il binocolo nel cassetto e sono andato a farmi la doccia.
FINE
E venne il lampo e poi il tuono di Jacopo Marocco è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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racconto “fastidioso” come piace a me: caccia il dito nella piaga e ce la lascia, senza retorica e buonismi. la scena vagamente hitchcockiana del binocolo, ma soprattutto le considerazioni legate all’incontro col vecchio sconosciuto sono particolarmente azzeccate. “Ma non l’ho salutato, ho smesso di farlo. Non essere contraccambiato mi faceva sentire stupido”, descrive in modo esemplare l’economia di mercato del bisogno umano troppo umano *dare per avere*. ebbenesì, una bella doccia calda è quello che ci vuole, a volte, per scaricare la tensione… brrrrr…
insomma, gran bel racconto.
Grazie 😉
Ok. Mi piace!
ok 🙂
Amo questo stile secco e quasi sterile che riesce a dare comunque descrizioni azzeccate e dettagliate. è raro come stile, mi ricorda molo Sclavi. Complimenti, mi piace questo stile! Un abbraccio da Andrea Dellamorte
Bellissimo complimenti!!!!!! Ogni volta che mi capita di leggere qualcosa di tuo devo andare sempre fino alla fine….e viene voglia di saperne sempre di piu’….bravo bravo bravo
Grazie Morgana