Succede.
Cioè, voglio dire, succedono un sacco di cose per cui, può succedere.
A guardarla mentre raccoglie a malapena il respiro per quanto piange nervosamente, ti verrebbe da dire: Oh, povera ragazza, chissà che le è successo?
A vederla così, distrutta e spaventata ti viene da chiederti: ma cos’è che ha fatto? Cosa le è successo? E inevitabilmente aggiungere: povera ragazza.
Piange, si dispera, un po’ per il dolore, un po’ per la vergogna. Ma è la paura, la paura che la farà parlare tra un singhiozzo ed un altro.
Le ho appena detto che deve raccontarmi tutto nei minimi particolari perché ogni dettaglio è importante e se non lo fa corre dei grossi rischi, potrebbe anche beccarsi una malattia, chessò tipo la rabbia, o dover cagare per il resto dei suoi giorni roba più liquida di un omogenizzato.
Non fa che ripetere che non devo chiamare i suoi genitori, che non devo avvertirli, che non devono sapere nulla di ciò che le è successo, di come l’abbiamo trovata. Io le dico che va bene, che non chiamerò nessuno, ma solo se lei mi racconta tutto. E lei, cercando di darsi una calmata, lo fa.
Dice:
“La mia era una curiosità, solo una curiosità. Forse anche qualcosa di più, ma non saprei”
In realtà non è necessario che lo faccia. Non c’è bisogno che mi dica come sono andati i fatti per filo e per segno, che mi spieghi cosa è successo di preciso, il perché ha fatto quel che ha fatto. Questa confessione non è utile ai fini sanitari. O meglio, sarebbe utile se io fossi un medico – e non un infermiere dell’autoambulanza – e soprattutto senza tutta questa minuziosità di particolari: motivazioni, date, luoghi. Sarò cinico ad approfittarmi di una situazione così, a far parlare di sé una ragazza dolorante, sotto shock e a pancia in giù su di una lettiga d’ospedale, ma sono sicuro che anche voi, al posto mio, fareste lo stesso. Anche voi vorreste sapere tutto di lei. Andiamo insomma, parliamoci chiaro, situazioni così non capitano spesso, e allora è bene sfruttare la cosa, trarne il massimo.
Così prendo carta e penna e mi metto seduto di fianco alla barella. Guardandola negli occhi, le dico che mi appunterò tutto ciò che mi dirà di necessario, poi passerò tutto al dottore, quando la visiterà. E lo capisco dallo sguardo che mi crede, che ormai è convinta che dirmi tutto ciò che riguarda questa sua bizzarra ed intima storia, sia utile. E toglie ogni remora e inizia a parlare, si libera.
Dice:
“Non potevo immaginare nemmeno lontanamente che la cosa sarebbe andata a finire così.”
Qui, nella camera d’attesa del Pronto Soccorso, siamo io e lei. Soli. E io, qui con lei, nemmeno dovrei esserci. In teoria, una volta portata qua dopo il primo soccorso sul luogo, sarei dovuto salire di nuovo sull’autoambulanza per fare un’altra chiamata, ma ho finto di non sentirmi bene e mi sono fatto sostituire da un collega. Non potevo mica lasciarmi sfuggire una cosa simile.
La ragazza è stata doppiamente sfortunata: non solo le è successo quello che le è successo, no, quando è arrivata qui è stata preceduta da un motociclista con gamba e braccio sinistro tranciati da un’auto che veniva dal lato opposto, e la priorità di cura se l’è presa quello, beccandosi un bel codice ROSSO. Mentre la ragazza un semplice codice VERDE.
Ci metteranno un po’ prima di ricucire gli arti addosso al motociclista. Così lei ora deve aspettare un po’ prima che i dottori le diano uno sguardo. Se ne deve stare un po’ con me. E mentre attende, lei continua a raccontarmi, dice:
“Dalla prima volta che l’ho visto non sono riuscita più a togliermelo dalla testa.”
Nuda e a pancia sotto sulla barella, tra un singhiozzo, una soffiata di naso, e una smorfia disperata che gli si forma sul volto ogni volta che realizza in che cazzo di situazione si è cacciata, la ragazza dice:
“Sapevo che era un pensiero da non farsi, assurdo, sapevo che pensare continuamente a tutto ciò non era normale, ma non potevo farci niente. Ci pensavo, pensavo e pensavo. E mi eccitavo sempre più.”
Ancora un po’ sporca di sangue ed escrementi dalla cintola in giù, dice:
“Ho compiuto diciotto anni un mese e mezzo fa. Il 30 giugno. Quando quel giorno ho visto i miei genitori porgermi una busta da lettere con un fiocco rosso sopra, mi sono detta: ecco, ci siamo. Ero convinta al cento per cento che dentro quella busta ci fosse la chiave di una macchina – d’altronde per quasi tutte le mie amiche era stato così -, ma quando l’ho presa in mano, tastandola, ho capito che dentro una chiave non poteva certamente esserci. Allora ho iniziato a sperare che ci fosse un assegno con qualche bella cifra stampata su. E invece niente. Dentro c’era solo una tessera. Una maledetta tessera che mi permetteva di essere membro a tutti gli effetti, membro Gold, del Circolo Equestre Horse’s garden. Sai che gioia.
Insieme a quella dannata tessera mi hanno regalato anche una di quelle ridicole uniformi da equitazione: caschetto nero, camicia bianca, giacca rossa, calzoni avana attillati e stivaletti inglesi neri. E poi guanti, chaps, ghette, ed anche un frustino. Roba che nemmeno se avessi dovuto disputare il campionato mondiale di salto ad ostacoli il giorno dopo avrei dovuto indossato. E se la sono presa pure quando hanno visto che non sprizzavo gioia da tutti i pori come loro si aspettavano.”
Lei si ferma, mi guarda, io annuisco con la punta della penna appoggiata ad un angolo della bocca per farle capire che la sto ascoltando attentamente, ed è proprio così. Lei resta in silenzio un istante, come a riflettere, poi riprende:
“Beh, c’è da dire che tutto ciò, il regalarmi quello che mi hanno regalato per i miei diciotto anni ad esempio, in parte rientra nel piano – patologico, direi – dei miei genitori di farmi restare la loro bambina in eterno. Vogliono arrestare la loro ansia, il loro avanzare degli anni, fingendo che le cose non cambino, che io sono ancora una dodicenne. E poi sicuramente c’è anche il fatto che le figlie dei loro amici sono tutte delle cavallerizze provette, mentre io no – non fino a qualche settimana fa almeno. In ogni caso, anche gli altri anni avevano provato ad incastrarmi con questa storia dei cavalli. Dicevano: l’equitazione è importane, ti disciplina. Dicevano: il rapporto con l’animale ti forma. Tutte stronzate. In realtà loro volevano solo che la loro figlioletta non fosse da meno delle figlie dei loro amici: se quelle andavano a cavallo, allora anche io dovevo andarci. Sai com’è, siamo come le galline: caga una, cagano tutte. Io però ero sempre riuscita a cavarmela: con una scusa o con un’altra ero riuscita a non farmi mai coinvolgere in nessun modo in questa storia dell’equitazione. Vacanze studio, scambi alla pari e cazzate simili mi avevano dato sempre la scusa per andarmene all’estero durante l’estate. D’inverno non serviva: la scuola bastava ed avanzava come scusa. Poi invece, quest’estate ho pensato bene di non andarmene, di rimanere qui per il giorno del mio compleanno. Ingenuamente pensavo che se fossi restata, sarebbe stato naturale per i miei farmi un’automobile, mentre se non fossi stata fuori…beh sarebbe stato più difficile. E invece no, mi hanno fregato ben bene: autorizzata ad andare a scuola guida, solo dopo aver imparato ad andare a cavallo. Ecco il ricatto a cui sono dovuta sottostare. Ricattata come una bambina cui viene detto che solo se fa la brava Babbo Natale gli porterà i regali. Non avevo scelta, così ho preso e ho iniziato ad andare al Circolo e a prendere lezioni di equitazione.”
La ragazza si ferma di nuovo, mi guarda e fa spazientita:
“Cristo! Ma quanto ci mettono là dentro?”
“Credi che riattaccare una gamba ed un braccio sia facile?” le faccio io.
“No,” fa lei, “ma perché lo fanno nel Pronto Soccorso? Non dovrebbero portarlo in una sala operatoria?”
“Il nostro ospedale è piccolo”, cerco di spiegarle, “praticamente facciamo solo attività di pronto soccorso, e qui quello là, in quelle condizioni, non può stare, e infatti dovrebbe venirlo a prendere un’eliambulanza per portarlo in un’ospedale più grande ed attrezzato, ma oggi questa benedetta ambulanza volante non ho ben capito che tipo di problema abbia, così nel frattempo devono pur dargli una tamponata al sangue e una riattaccata alla bene e meglio al braccio e alla gamba.”
“Dai, sii paziente,” le faccio quasi pregandola, e poi con voce suadente le chiedo di continuare a raccontare.
“Ok” fa lei con aria sconfitta. Così continua parlare.
Io ogni tanto annuisco, continuo a far finta di prendere appunti e prego che là dentro non finiscano di ricucire il centauro prima che la ragazza mi abbia raccontato tutto.
Dice:
“Quasi due settimane fa il mio maestro d’equitazione dice a mio padre che sono un portento, una fantina nata, sembra che io ci parli con i cavalli, un feeling incredibile.
In effetti non è stato difficile come pensavo, ho imparato rapidamente e devo dire che mi sbagliavo sul conto dei cavalli e del mondo che gli gira intorno. Con questo non dico che sono diventata un’appassionata sfegatata dell’equitazione, o una di quelle che dicono: più conosco gli uomini e più amo gli animali – per inciso, ho sempre diffidato da chi dice questa cazzata. No, sto solo dicendo che comunque montare una bestia di mezza tonnellata e sentire che risponde ai tuoi comandi è una gran bella sensazione.
Beh, fatto sta che mio padre, appena sente queste cose dal maestro d’equitazione, diventa raggiante.
Codice VERDE (seconda e ultima parte)
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