
Non vorrei trovarmi qui oggi. C’è la festa del patrono e c’è un sacco di gente in giro. Troppa.
Ci fosse stato anche Mattia non sarebbe stato un problema, avrei condiviso con lui la mia sociofobia, ma il coglione non è potuto venire.
Mattia non fa nulla, non lavora. Ha solo il padre, pensionato, che gli sgancia un po’ di soldi al mese, ma a patto che quando gli serve qualcosa, il figlio deve farsi trovare a sua completa disposizione. Oggi, ad esempio, l’ha chiamato poco prima di vedersi con me.
Gli ha detto che doveva accompagnarlo a fare una risonanza magnetica. E Mattia deve obbedire: una volta il coglione s’era talmente sballato la sera, che la mattina dopo non s’è riuscito ad alzare per andare a fargli una commissione, e dal padre quel mese non ha beccato nulla.
Così sono da solo in questo bar affollato, alla fine del bancone e al terzo Campari gin.
Fa caldo e quel tossico del Cinese non si vede. Avevamo appuntamento qui mezz’ora fa, ed è solo grazie all’azienda Campari se ho resistito tutto questo tempo.
Prendo un tovagliolo e mi asciugo il sudore sulla fronte. Mi metto una mano in tasca per controllare che i soldi ci siano ancora. Ci sono.
Mi guardo intorno e mi chiedo se il Cinese lo chiamano così per via del suo colorito giallo, cimelio di una storica tossicodipendenza. Ogni volta che lo incontro provo sempre un certo ribrezzo. Non che sia un tossico da stazione, tipo zombie. No, affatto. E’ decisamente inserito nella “società”, è belloccio e si veste anche bene. Se non me lo avessero detto che si fa le pere da quindici anni, nemmeno ci avrei pensato. Solo che quella pelle giallastra mi disgusta, e poi non rimane affatto simpatico. A me non rimane simpatico. Diciamo che a influire su questo giudizio c’è il fatto che tutte le ragazze che ha avuto nel corso del tempo sono finite chi in comunità, chi peggio, mentre lui ha sempre gestito alla grande la sua tossicodipendenza. Se non fosse per il fatto che smercia l’MD più buona che puoi trovare nel raggio di trecento chilometri, eviterei di trattare con lui, ma siccome di farmi tutti quei chilometri non mi va e siccome stasera il locale sarà pieno di liceali vogliosi di beveroni amari, eccomi qui ad ordinare il quarto Campari gin in attesa di Sua Maestà tossica il Cinese.
Ma Sua Maestà tossica ha anche il cellulare staccato. E io sto iniziando ad essere sbronzo, oltre che incazzato.
Accanto a me c’è un tizio che sta bevendo una birra mentre parla con due ragazze. Sta dicendo qualcosa riguardo al fatto che a breve si farà un tatuaggio con su scritto una delle frasi che Toni Servillo dice ne La Grande Bellezza. Dice che deve ancora scegliere quale.
Una delle due ragazze con cui sta parlando inizia a ridere, di gusto.
Il tizio rimane un po’ interdetto, confuso.
Mi chiedo se riesce a capire che quella risata è dovuta alla cazzata che ha appena pronunciato.
La ragazza continua a ridere e guarda l’amica. Poi guarda me. Ci fissiamo, per un po’. Ha gli occhi di un colore indefinibile e maledettamente bello. Scommetto che è cresciuta con tutti intorno a dirle quanto fossero belli. Ci scommetto proprio.
Ci guardiamo a distanza. E in questo guardarci vediamo tutto quello che potremmo essere.
Ma la paura ci fotte prima ancora di provarci e così, contemporaneamente, torniamo a guardare altrove.
Esco dal bar. Fuori c’è un gran via vai di persone, e la cosa mi disorienta. C’è della musica che proviene da qualche parte e ci sono anche un sacco di bancarelle. Mi avvicino a una di quelle che vende fossili, minerali e conchiglie. Prendo in mano una di quest’ultime e me la porto ad un orecchio. E’ da tanto che non lo faccio, da quando ero piccolo. Quando sono sbronzo, solitamente, faccio cose che non faccio da tempo.
Mi aspetto di sentire il rumore del mare, ma dalla conchiglia arriva solo la voce di Cesare Cremonini che grida ANGELINAAAAAAAAAAAA.
Così non faccio altro che rimettere la conchiglia dov’era, salutare il tizio della bancarella. E andarmene.
FINE