Stasera nel salotto di Quantix parlano di sesso dopo gli ottanta anni.
Adoro questo talk show. Adoro tutto questo parlarsi addosso senza dirsi nulla, senza arrivare a nulla.
Il presentatore chiede ad un dottore tutti i tipi di rimedi che ci sono per avere un’erezione durante la terza età. E il dottore li elenca.
Sembra che adesso vada per la maggiore una protesi idraulica che ti impiantano nel pene, e che ti permette di gonfiarlo quando ti pare. Ti fuoriesce dall’inguine, o comunque da quelle parti lì, una pompetta a mano simile a quella dell’apparecchio per misurare la pressione. Solo un po’ più piccola. Più discreta. Premi questa pompetta e il tuo cazzo si gonfia. E si sgonfia quando lo decidi tu. Erezioni quasi perpetue, e senza le controindicazioni che danno farmaci vasodilatatori o iniezioni di papaverina sul glande, dice il dottore.
In studio c’è un politico molto anziano, che non fa che ripetere quanto sia grandiosa questa protesi. Il politico dice: riesco a farne anche cinque per notte. Dice: mi ero maciullato tutta… tutto il glande a forza di farmi le iniezioni, invece ora è tutta un’altra cosa. Dice: nemmeno a vent’anni mi veniva così duro. Una ragazza sui diciotto anni, una valletta di qualche programma sportivo, che siede nella poltroncina accanto al politico, inquadrata dalla telecamera, annuisce felice all’affermazione del politico. Fa l’occhiolino allo schermo e dice: è tutto vero, confermo. Il politico le dà una pacca sulla coscia, orgoglioso.
Tutti sorridono. Soddisfatti.
Starei a guardare ancora, ma Debora mi chiama. E mi chiede di vederci. Dove?, le chiedo. Alla fumeria, risponde lei.
Il posto non mi piace, non mi piacciono questi cazzo di odori, questo abuso di spezie e profumi mi dà la nausea.
Ci siamo io e Debora, ci sono tre ragazze straniere, forse Erasmus, in un tavolo vicino, e ci sono sei o sette arabi un po’ più in là.
Debora parla veloce tra una boccata e l’altra dal narghilè, mentre io osservo gli arabi che, ogni volta che nel locale entra un bengalese con le rose, inondano di fiori e complimenti a distanza le tre ragazze Erasmus. C’è un che di romantico in tutto questo?, mi chiedo. Forse sì.
Debora parla, mi racconta la sua giornata e aspira dal narghilè. Mi racconta che suo padre va a lavorare per un periodo a New York e aspira dal narghilè. Mi dice che il suo gatto oggi non reagiva a nessuno stimolo, e che si era come gonfiato, allora lo ha portato dal veterinario, il quale le ha detto che era così perché aveva i calcoli ai reni ed era come inebetito perché il suo corpo, non potendo espellere i liquidi, li riassorbiva, anche a livello cerebrale, o così mi sembra che abbia detto. Non ci sto mettendo mente a quello che dice, e la mia mente è impegnata a pensare come sarebbe vivere con una pompetta che ti fuoriesce dall’inguine.
Ma mi stai ascoltando?, mi chiede Debora col fumo che le esce di bocca. Sì che ti sto ascoltando, dico io, mi dicevi che il tuo gatto aveva dei calcoli grossi come dadi da brodo. No, lo vedi che non mi ascolti, fa lei, ti stavo dicendo che Marika l’hanno lasciata troppo sotto la lampada e s’è ustionata ed è dovuta andarci all’ospedale. Non so chi sia Marika, e mi limito a fare la faccia preoccupata chiedendomi, nel frattempo, che ci sto a fare qui. Senza sapermi rispondere.
Dai fuma, mi dice Debora. Non mi va, faccio io. Dai, è aromatizzato alla mela, è buonissimo, fa lei. No, non mi va. Dai, insiste. Sono sei anni che ho smesso di fumare, le faccio. Beh, mica lo aspiri.
Così fumo, giusto per non sentirla.
Guardo distrattamente il tavolo delle tre ragazze vicine e mi accorgo che è completamente coperto di rose. Le ragazze gongolano, e se la tirano un po’. Gli arabi iniziano ad innervosirsi perché le ragazze non rispondono all’invito di sedersi vicino a loro.
In effetti il sapore che lascia in bocca questa roba è buona, ma dopo un po’ stucca. Ma io il “po’” devo averlo oltrepassato perché alla fine mi attacco al bocchino del narghilè e non lo mollo. E così la mia nausea, costante ma comunque lieve da quando sono entrato qui dentro, aumenta di colpo. Mi gira anche la testa. Debora dice: per fortuna che non volevi fumare. A me gira tutto, e forse era quello che volevo. Una scusa. Lei sorride, poi si fa seria e abbassando gli occhi sul tavolo, dice: comunque Lapo, ti ho chiesto di vederci qui perché devo parlarti di una cosa seria. Vorrei chiederle cosa, ma so che se apro bocca vomito. Intanto dal tavolo degli arabi volano parole tipo “troie” e “puttane”. Mi chiedo se stasera non finisca con uno stupro collettivo e mi chiedo cosa debba dirmi Debora, ma io sento che non resisto un momento di più: ho bisogno d’aria e di vomitare. Così, senza spiegazioni, esco di corsa fuori da questo locale del cazzo e faccio due respiri profondi, ma sento che il vomito è imminente. Allora mi infilo in un vicolo buio, parallelo alla porta d’ingresso della fumeria. Sto un attimo, un attimo in cui sento che Debora è uscita, e mi chiama, mi cerca, ma io non rispondo, apro solo la bocca per non opporre resistenza all’ondata di vomito inarrestabile.
Lì per lì, preso dallo sforzo di rigettare fuori anche l’anima non mi accorgo di nulla. Poi, passata l’ondata più forte, sento qualcosa, e nella penombra intravedo qualcosa. Qualcosa che si muove sotto di me, sotto a dove ho vomitato. E’ una persona. Sento bestemmiare, vedo una mano e anche siringa da insulina non usata per l’insulina, e sento di nuovo bestemmiare. Il tossico che s’è preso in pieno tutta la mia vomitata, si sta rialzando a fatica, smorzato dalla botta dell’eroina. Dice: t’ammazzo! E mi punta addosso la siringa. Mi dispiace, non t’ho visto proprio, è successo tutto così in fretta e poi è buio, dico io.
Lui si è alzato quasi completamente, mi sta venendo addosso, ma poi si ferma e inizia a vomitare pure lui. Io lo schivo, lo guardo e sento più in là Debora che continua a chiamarmi, il cellulare che mi vibra in tasca e io non riesco a fare altro che scappare per vicoli. E tornarmene a casa. Che forse becco una replica di Quantix, mi dico.