1.
L’autobus è praticamente vuoto: c’è un signore, in piedi, che sta parlando col conducente, facendo proprio quello che il cartello sopra la sua testa vieta di fare; ci sono io; c’è una vecchia, che si è messa a sedere proprio nel sedile accanto al mio, e c’è un travestito dai capelli rossi.
Nonostante ci siano molti posti liberi, il travestito se ne sta in piedi, a poca distanza da me e dalla vecchia: indossa una giacchetta di pelle nera con sotto una magliettina bianca dalla cui scollatura fuoriescono due grossi seni a palloncino, una minigonna vertiginosa, calze a rete nere e scarpe con tacchi altissimi. A tradire la sua femminilità sono solo i tratti forti del viso e delle mani. Le mani non mentono mai, e le sue sembrano quelle di mio padre.
La vecchia lo fissa, sembra che stia guardando un alieno. Mi da un colpetto col gomito, e senza abbassare minimamente la voce, mi fa:
“Ma è modo di andare in giro conciati così?”
Non dico niente perché è chiaro che si sente tutto. Imbarazzato, abbozzo un mezzo sorriso. Il travestito si accorge di tutto, ci guarda di traverso. Non sembra né offeso, né turbato però. Probabilmente ci è abituato.
La vecchia riattacca a parlarmi, ma adesso parla di sua figlia – che non so bene cosa le ha combinato -, come se il travestito e il suo modo di conciarsi non esistessero più. Cinque secondi, e si mette a parlare di scarafaggi, grossi scarafaggi che le infestano la casa. E’ completamente suonata.
Per fortuna sale una signora col pancione. Dio ti ringrazio. Così mi alzo e le lascio il posto. Che se la goda lei la vecchia.
Mi metto a sedere nei sedili in fondo. Ci sono degli studenti, qualcuno viene in classe con me. Accenno qualche saluto. Non ho voglia di parlare. Appoggio la testa al finestrino, e mentre il bus va, senza sapere il perché, o forse sì, mi torna in mente un pomeriggio di qualche mese fa.
Ho ancora molte fermate davanti a me, così chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dai pensieri, dai ricordi.
2.
Era il giugno dell’anno scorso e faceva caldo. Molto caldo.
I miei dovevano andare non ricordo dove e non sarebbero tornati prima di cena.
Ricordo che rimasi tutto il pomeriggio con mia nonna e, visto che dovevo rimanere a casa per studiare, accettai di farle compagnia, badarla più che altro.
Solitamente, dopo pranzo, mia nonna si piazza nella poltrona vicino al camino e, se la sua testa arteriosclerotica non è in preda a strane fantasie, se ne sta tranquilla lì fino all’ora di cena. Quel pomeriggio però, mi accorsi subito che non era tranquilla come al solito. Aveva qualcosa. Si muoveva in continuazione. Era inquieta.
Tutto ciò mi distraeva.
Lasciai perdere un secondo i libri e le chiesi cosa avesse. Rispose:
“Niente, non preoccuparti”.
Io insistetti, ma non volle dirmi niente. Pensai che si fosse pisciata o cagata addosso, o entrambe le cose, e che non volesse dirmi nulla per vergogna: poteva stare tranquilla, non l’avrei mai toccata nemmeno con un dito. In quei giorni faticavo a pulirmi il mio di culo, figuriamoci il suo.
Così ripresi a studiare, o almeno tentai di farlo, mentre lei non smetteva di fremere su quella poltrona. Era sempre più agitata, nervosa.
Poco dopo, nel mezzo di un passaggio assurdo della Divina Commedia, e mentre meditavo se dargli qualche goccia di Lexotan, mia nonna sbottò. Esclamò:
“Filippo, sono incinta!”
Rimasi un attimo interdetto. La guardai. Con la testa feci un segno di assenso e mi rimisi a studiare.
Mia nonna, ha ottant’anni, è arteriosclerotica, e prende un mucchio di farmaci che non la rendono molto lucida – e chissà quali altri strani effetti le danno. Sentirla dire cose assurde è all’ordine del giorno. Ad esempio, io non mi chiamo Filippo, ma Claudio. Filippo è suo figlio, cioè mio padre, ma lei chiama me col nome di papà, e papà col mio nome. Crede che io sia suo figlio e che papà sia… sinceramente non so chi pensa che sia. Spesso è come ascoltare un compact disc con la selezione casuale: non sai mai quello che può uscire dalla sua bocca.
Studiai, se così si può dire, un’altra mezz’ora. Mia nonna non sembrava essersi affatto calmata. Le chiesi di nuovo cosa avesse, il motivo di tanta agitazione:
“Sono incinta, come te lo devo dire!”, fece lei.
Stetti al gioco:
“Ah, e così mi arriverà uno zio?”
“Uno zio? Semmai un fratellino!”, rispose lei in modo deciso.
Un fratellino, certo: nell’assurdo della sua testa io ero suo figlio in quel momento.
“Comunque è presto per sapere se sarà un maschio o femmina. Potrebbe esser anche una sorellina…”, continuò lei convinta.
Ci fu un po’ di silenzio. Ero abituato ad uscite del genere, anche se mai di questo tipo.
Mi accorsi che nonostante avesse comunicato il motivo del suo disagio, il viso le rimaneva cupo, così le chiesi:
“Scusa eh, ma una notizia del genere di solito porta gioia, invece tu mi sembri molto preoccupata, come mai?”
“Come mai sono preoccupata? Tu non lo saresti nella mia situazione?”, disse lei stupìta.
“Quale situazione?”, chiesi io.
“Quale situazione?”, ripeté lei facendomi il verso, “Secondo te? Fallo funzionare ogni tanto quel cervello.”
“Ah, io eh?”, risposi quasi seccato.
Allora lei si spiegò:
“Quartiglio, non la prenderà molto bene: già non arriviamo alla fine del mese così, figuriamoci con un’altra bocca da sfamare.”
Questo era il motivo della sua agitazione: Quartiglio, suo marito morto venti anni prima, non avrebbe preso bene la notizia di un pargolo in arrivo perché sarebbe stato una spesa non indifferente per le tasche della famiglia.
In ogni caso la sua inquietudine mi stava contagiando. Mi accorsi di non non aver più voglia di continuare a giocare con la sua allucinazione. Guardai la montagna di libri davanti a me, mi prese l’ansia, in un attimo mi spazientii e così le dissi:
“Nonno, Quartiglio, insomma tuo marito, è morto venti anni fa!”
Lei mi guardò come se avessi bestemmiato in chiesa. Il suo viso s’incupì ancora di più. Gli occhi le si gonfiarono di lacrime. Mi pentii subito di ciò che avevo detto, ero cosciente di aver fatto una cazzata, ma purtroppo non è facile stare con chi vive come se fosse in un’altra realtà. E’ difficile abituarsi a vedere una persona cui tieni, ridotta a un mucchio d’ossa e senza il minimo senso della ragione. Vorresti riportarla nel mondo reale, e la consapevolezza che non si può, a volte, ti fa perdere i nervi e dire cose che non vorresti.
Mia nonna resistette alle lacrime e, furiosa, dalla poltrona mi lanciò una scatola che teneva nascosta sotto la maglietta. L’afferrai al volo. Fuori c’era scritto PREDICTOR. L’aprii e ne tirai fuori il contenuto: un involucro di nylon strappato con all’interno quello che inevitabilmente doveva esser un test di gravidanza. Lo riconobbi subito: l’avevo già visto tempo addietro, quando una mia amica, dopo un lungo ritardo, temendo una gravidanza, si decise a fare un test. Lei si vergognava a comprare un test di gravidanza, così ci mandò me. Neanche a farlo apposta quello che presi per la mia amica era della stessa marca di quello che ora tenevo in mano.
Sul test di mia nonna c’erano due cerchi: uno piccolo e uno grande. Quello più grande era di forma ovale, ed entrambi avevano una linea rosa all’interno. Guardai il retro della scatola: cerchio ovale rosa = incinta.
Non feci in tempo a chiedere a mia nonna dove avesse preso quel test di gravidanza, che entrò in casa mio fratello cantando a squarciagola. Andò in sala, accese lo stereo e si mise a ballare la prima canzone che partì, forse qualcosa della Pausini o giù di lì.
Venne da noi saltellando: era vestito in modo osceno. Portava in mano una bottiglia di spumante. Ci baciò sulle guance e, sculettando, si diresse verso la cucina. In soggiorno rimase la nube tossica del suo profumo.
Carlo, mio fratello, ha venticinque anni e ha sempre desiderato essere mia sorella piuttosto che mio fratello. Si fa chiamare Deborah, e ha sempre preferito pisciare a sedere invece che in piedi, e fin da piccolo ha sempre adorato indossare i vestiti di mamma.
Appena tornato dalla cucina si mise a sedere sulle mie ginocchia. Lo cacciai dicendogli:
“Pesi cazzo, non sei più un bambino!”
“Bambina, prego!”, precisò lui, un po’ stizzito. Poi continuò: “…ehm a proposito di bambini…ti sarai chiesto perché ho portato una bottiglia di spumante…”
“Sì, in effetti me lo sono chiesto, però spiegamelo spostandoti un po’ più in là perché mi stai intossicando con tutto ‘sto profumo!”
“Oh, abbiamo qualcuno un po’ alterato qua? Oggi si festeggia, eh! Non voglio nessuno in casa che non sia allegro!”, ordinò. Poi mi chiese: “Quando arrivano mamma e papà?”
“Non lo so, però per cena ci dovrebbero essere”, risposi io.
“Bene, non vedo l’ora di dargli la lieta notizia”, disse mimando un applauso e battendo i piedi.
“Quale notizia? Ti operi?”, chiesi sarcastico. Pensavo s’irritasse, invece con un sorriso a trentasei denti esclamò:
“No Claudio, sono incinta!”
Anche lui mi lanciò una scatola. Una scatola uguale a quella di mia nonna, sia nel contenuto che nell’esito.
Era troppo:
“Oh, ma insomma che avete oggi tutti? Tu sei incinta, nonna è incinta! Che c’era sciolto nell’acqua a pranzo, un LSD?”, sbottai.
In preda ad una crisi di nervi, gettai quei maledetti test per aria, scaraventai i miei libri a terra e
me ne andai in camera mia.
“Stronzo insensibile!”, mi gridarono dietro mia nonna e mio fratello all’unisono.
Ero confuso, arrabbiato. Stanco di studiare.
Non capivo più se ero io il folle, o loro.
Quale era la realtà, quale la finzione?
Stavo sognando?
Quella sera non cenai. Rimasi in camera. Nessuno venne a bussare alla mia porta. Nessuno venne a chiamarmi per cena. Nessuno mi offrì spumante.
Mi rollai due canne davanti ad un episodio di X-Files e crollai in un sonno profondo prima delle undici.
Il giorno dopo avrei avuto gli esami di maturità.
3.
L’autobus è arrivato.
I ricordi si perdono.
Scendo.
Vado diretto verso la mia meta. So dove devo andare.
Oltrepasso varie porte, vari corridoi.
Sono arrivato. Ci sono i miei genitori che mi vengono incontro sorridenti. Mi accompagnano in una stanza.
Ci sono due letti:
in uno c’è un neonato che, da una tetta moscia, succhia il latte da mia nonna;
in quello a fianco c’è una neonata che, da una tetta siliconata, prende il latte da Carlo, ma che ora è a tutti gli effetti Deborah.
Li guardo e penso che mia nonna e mio fratello sono riusciti a realizzare l’impossibile. Io, invece, non sono nemmeno riuscito a passare gli esami di maturità.
FINE
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