1.
L’ennesimo dottore che vuole sentire questa storia. La mia storia.
Dottori, dottori, dottori…
Ormai non so più quante volte l’ho raccontata. A quanti medici l’ho narrata. Avrebbero potuto registrarmi così avrei risparmiato tempo e fiato, ma dicono che no, non è lo stesso. Vogliono sentirla da me, dal vivo. Vogliono guardarmi negli occhi e prendere i loro cazzo di appunti mentre gli racconto di come ci sono finito qui, in questo dannato posto.
Come sono ingenuo io. Stupido. A lungo ho sperato che il dottore di turno che voleva parlarmi, lo facesse per tirarmi fuori di qua. Che fosse venuto per salvarmi, perché magari mi credeva, credeva alla mia storia, perché voleva aiutarmi. I primi tempi ci speravo sul serio. Poi, invece, ho capito che mi usavano – ed usano ancora – solo per studiarmi. Vengono per studiare il ragazzo pazzo della stanza numero Sedici. Per loro sono solo un caso clinico.
I dottori che vengono solitamente sono tutti giovani. Aspiranti medici che magari stanno facendo la tesi su di me, oppure un fottuto dottorato in psichiatria e sono quindi costretti a sentire la mia assurda storia.
Caro dottor X, devi farci un tuo rapporto sul paziente della Sedici, farci una tua diagnosi, dirci cosa ne pensi, se vuoi diventare un bravo psichiatra!
Fottetevi. Tutti. Mi avete stufato. Non ho più voglia di dirvi niente. Fateveli dare dai colleghi che vi hanno preceduto gli appunti sui miei deliri.
2.
Alle tre ho l’appuntamento.
Come al solito verrà Paul, l’infermiere di colore – sì, oggi verrà Paul perché è giovedì e il giovedì lui fa il pomeriggio – in camera mia e mi dirà:
“Hai visite, giovanotto!”
Mi accompagnerà nella stanza adibita al colloquio. Mi siederò davanti ad un ragazzo o una ragazza poco più grande di me. Quello o quella mi farà un paio di domande su come mi trovo nella struttura e su come mi senta. Io gli risponderò come al solito: “Come cazzo vuole che ci si senta qua?!” poi, volente o nolente, dovrò attaccare con la mia storia – perché un maledetto pizzico di speranza di essere salvato, dentro di me rimane sempre, altrimenti non si spiegherebbe il perché alla fine accetto sempre di sottopormi a questi “incontri”.
L’aspirante dottore annuirà, magari mordicchiando la punta della penna, facendo finta di capire, di capirmi. Ma in realtà non capirà un emerito cazzo. Scribacchierà solo qualcosa sul suo merdoso block-notes e se ne andrà. Tornerà al suo bel corso di psichiatria criminale. Lasciandomi qui. Solo.
Come era nel principio e ora e sempre,
nei secoli dei secoli.
Amen.
3.
Davanti a me c’è un angelo. Ha gli occhi ed i capelli dello stesso colore, neri. Tiene la sua chioma legata in un coda di cavallo alta. Un angelo. Ha un piccolo neo vicino la bocca che la rende molto umana. Quel neo le stempera l’aria da stronza che il camice bianco inevitabilmente dona a chiunque lo indossi. Questo angelo risponde al nome di Ariel. Dottoressa Ariel Mahone.
Mi dice che si è appena laureata in Psichiatria, che è specializzata in psicologia criminale. Ha sentito la mia storia, ma vuole sentirla da me. Dice che è qui per aiutarmi. Per A – I – U – T – A – R – M – I. Ho sentito bene. Sì, è un angelo.
La speranza, in tutta la sua interezza, affiora dal marasma di odio e rassegnazione in cui l’avevo seppellita. Nessuno degli altri medici che l’hanno preceduta mi ha mai detto nulla di simile, ero io a caricarli di un’aurea salvifica. Forse la mia salvatrice è davvero arrivata. Ora capisco perché Paul prima di aprire la porta della sala colloqui mi ha fatto l’occhietto.
La dottoressa poggia un microregistratore sul tavolo e preme play, dice che posso iniziare a raccontarle la mia storia quando voglio.
Non esito. Racconto.
4.
Era l’estate del duemila. La calda estate del duemila. Forse non era molto calda, ma io la ricordò così per cui…
Ariel sorride.
Iniziò tutto il giorno del mio compleanno. Il giorno in cui compii sedici anni.
Non feci una festa con gli amici, anche perché non ne avevo da invitare. Festeggiai in casa con mio padre, mia madre e mio fratello minore James, di sette anni.
A dire il vero non avevo voglia di festeggiare, ma mia madre aveva preparato la torta ai mirtilli che a me piaceva tanto ed in più aveva cotto anche il tacchino, così lasciai fare. Sorrideva, quel giorno, e non volli rovinargli la cosa.
Mangiammo tutti insieme. Escluso il tacchino e la torta, non ricordo bene cos’altro mangiammo, ma credo sia irrilevante…
Ariel annuisce.
Finito il pranzo, mia madre tirò fuori quella splendida torta che sapeva fare benissimo. La posò sul tavolo, piazzandoci sopra sedici candeline. Le accese. Mio padre mise la macchina fotografica sopra il camino, azionò l’autoscatto e….cheese, finti sorrisi ed ecco immortalati i miei fottuti sedici anni.
Mangiammo la torta ai mirtilli. Deliziosa.
“Fin qui tutto bene. Vero, Constantine?” dice Ariel, quasi ansiosa di arrivare al dunque.
“Sì fin qui tutto bene, dottoressa.” dico io.
“Ma poi che successe?”
Dopo la torta mio padre venne da me. Mi disse di chiudere gli occhi. Li chiusi. Quando li riaprii davanti a me c’era lui che mi porgeva orgoglioso una canna da pesca con legato attorno un fiocco rosso. Mia madre e James, intorno, mi guardavano sorridenti. Presi la canna da pesca in mano, non sapendo proprio che dire. Mio padre prese fuori da una busta del superstore due cappelli da baseball, uguali, con un pesce disegnato sul davanti, uno lo indossò lui, l’altro lo calcò ben bene sulla mia testa. Patetico. Poi, porgendomi una cassetta di plastica per gli attrezzi, disse:
“Campione, qui dentro ci sono un sacco di esche artificiali per black-bass e lucci,” poi indicando con la testa la canna da pesca: “Messe su questa magica canna, nessun pesce resisterà.”
Ora, c’erano due cose che non mi tornavano: la prima, era che io avevo sempre odiato la pesca, e loro lo sapevano; la seconda, era che mi aspettavo le chiavi di una macchina.
Non per fare il ragazzo viziato, ma tutti nel mio quartiere, nella mia classe, anche quelli messi peggio economicamente, ricevevano una macchina per i loro sedici anni. Io invece non ricevetti altro che una buona dose d’infantilismo.
Mi sforzai di farmi vedere sereno, contento, soddisfatto. Ci riuscii a malapena. Non mi venne fuori altro che un triste sorriso ebete. Non si accorsero del mio malumore o, se mai ne accorsero, non lo diedero a vedere.
Ariel mi chiede se i miei genitori fossero ricchi.
Certo, rispondo io. Mio padre era direttore di una banca, mentre mia madre era proprietaria di una concessionaria di macchine di lusso. Anche per questo mi aspettavo una macchina. Non una macchina di lusso, ovvio, mi bastava una macchina qualsiasi, anche usata.
Ariel mi dice di continuare il racconto.
Beh, fatto sta che una volta consegnatomi il regalo, mio padre andò verso la porta di casa e disse:
“T’aspetto in macchina, campione, li facciamo ‘neri’ quei Black oggi.
Ho noleggiato anche una barchetta per l’occasione.”
Oh, fantastico, pensai io.
Mi volsi verso mia madre. Teneva James davanti a sé poggiando le proprie mani sulle sue spalle. Sfoggiavano entrambi un sorriso smagliante. Erano felici per me. Io no.
Ariel mi chiede cosa provai in quel momento.
“Frustrazione e rabbia.” rispondo io, senza esitare.
Ariel annuisce e mi fa segno di continuare.
Quel pomeriggio fu terribile. Andammo in un lago a circa una mezz’ora d’auto da casa.
In barca regnò il silenzio. Da parte mia, almeno. Mio padre ogni tanto elencava qualche dato tecnico o pregio della canna che mi aveva regalato: forza di lancio, materiale di costruzione, resistenza ecc. ecc.. Io mi limitavo a fare qualche lancio e a starmene in silenzio. Avrei voluto chiedergli perché ancora mi trattavano come un bambino; perché mi avessero regalato una canna da pesca invece di una macchina. Non dissi niente.
Tornammo a casa che era sera, senza aver preso nemmeno un pesce: evidentemente la mia negatività si propagava anche nell’acqua, tenendo distanti i pesci.
Appena tornato, corsi in camera mia per togliermi i vestiti. Mi spogliai completamente: avevo bisogno di una doccia. Appallottolai tutti i panni e li andai a gettare nel cesto della biancheria sporca, ma proprio mentre lo stavo facendo, qualcosa sopra la scrivania catturò la mia attenzione: c’era un biglietto con su scritto : Per Constantine e, accanto, un pacchetto regalo. Pensai subito ad un regalo di qualche parente, anche se era strano, visto che da quando ci eravamo trasferiti i rapporti col parentado si erano molto allentati. Presi il biglietto e lo aprii. Dentro, in una calligrafia da bambino, c’era scritto:
“Auguri!!!”, firmato: Un vecchio amico…
Un vecchio amico? Mille domande iniziarono a rimbalzare nella mia mente. Vecchio amico? Sembrerà strano, ma io di amici non ne avevo mai avuti. Conoscenti sì, ma qualcuno degno di essere chiamato amico, nessuno.
Come mai? mi chiede Ariel.
Beh, quando avevo sette anni mio padre venne trasferito per lavoro dal Rhode Island alla Louisiana. Laggiù avevano problemi con una filiale che stava per fallire, così la holding che controllava la banca dove lavorava papà, viste le sue ottime capacità dirigenziali, decise di mandarlo lì per risollevare le sorti della banca. Io ero piccolo, e non ricordo se… CONTINUA QUI Il ragazzo della stanza numero 16 (seconda parte)
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