Il ragazzo della stanza numero 16 (seconda parte)

…avevo degli amichetti nel Rhode Island, ma di sicuro una volta venuto qui non riuscii proprio a farmene di nuovi. Quel cambiamento non mi fece un granché bene e qui non trovai molta accoglienza. Trovai una mentalità contadina, molto provinciale, abituata ad avere paura del forestiero. Una volta bollato come quello “di fuori”, lo restai per sempre. Per reazione anche io mi chiusi al mondo. Se loro non mi volevano, allora non li volevo neanche io.
Non pensi, dottoressa, che la cosa sia stata difficile o molto triste. Non sono stato male senza amici. Diciamo che, quando ti abitui alla solitudine, alla fine non stai poi così male.
Ariel mi chiede di continuare con la storia del pacchetto regalo.
Pensai che aprire il pacchetto mi avrebbe aiutato a capire. Capire chi mi aveva fatto quel regalo. Così lo scartai. Dalla carta regalo emerse quello che sembrava essere un giocattolo: una Tartaruga Ninjia di plastica, che teneva in mano una spada. Si vedeva che era un giocattolo vecchio: in alcune parti la vernice non c’era più o era scolorita, in altre c’erano pezzi di qualcosa attaccati, simili a della muffa. Altre parti erano smussate. Ma la cosa che mi colpì di più fu che puzzava. Quella Tartaruga Ninjia con la spada – che doveva essere Leonardo – puzzava terribilmente di marcio, di fradicio e di acqua stagnante.
Confuso, mi affacciai dalla porta della camera e gridai a mia madre:
“Ma’, chi è che è passato a portarmi un regalo?”
La sentii avvicinarsi alle scale.
“Come?”, chiese.
“Ho trovato un biglietto e un pacchetto regalo sulla scrivania, chi l’ha portato?”
“Ma che dici?” disse mentre saliva le scale.
Indossai di corsa un paio di pantaloncini corti per non farmi vedere nudo.
Entrò.
“Cos’è ‘sta storia del regalo?”, chiese lei incuriosita.
“Eh, non lo so, è passato qualcuno a portarmi un regalo oggi?”
“No, nessuno, non è passato nessuno.”
“Allora quell’affare chi me l’ha regalato?” , dissi indicando la scrivania.
Mia madre si avvicinò alla scrivania – io mi ero seduto sul letto per vestirmi – e la sentii dire:
“Quale affare?”
Guardai verso la scrivania, ma non c’era più nulla.
“Allora?” fece mia madre.
Mi alzai e la raggiunsi.
“Mah, erano qui: un biglietto d’auguri e una Tartaruga Ninja giocattolo. Giuro che erano qui!”
Mi sentivo come in uno di quei film horror di serie B dove il protagonista giura di aver visto delle cose e nessuno gli crede.
Mia madre mi guardò preoccupata e mi mise una mano sulla fronte.
“Secondo me hai la febbre, forse hai preso troppo sole al lago. Mettiti a letto, torno subito…”, disse scomparendo dietro la porta.
Io, confuso, non dissi nulla, non protestai: sapevo che non sarebbe servito.
Mi misurai la febbre, e in effetti un po’ ne avevo, ma non c’entrava. Quel biglietto e quel giocattolo li avevo toccati con mano, erano reali, o almeno lo erano stati. Ma ora dov’erano spariti? La cosa mi faceva un po’ paura e per tranquillizzarmi cercai di convincermi che sì, era stato il sole a scombussolarmi un po’ il cervello.
Mia madre mi portò un’ aspirina e un po’ d’acqua. La presi e mi infilai a letto, senza farmi più la doccia e nonostante fossero da poco passate le nove di sera. La mamma mi rimboccò le coperte e mi baciò sulla fronte: oh, quanto amava trattarmi come se avessi ancora otto anni. Scommetto che se avesse potuto, si sarebbe tirata fuori un seno e mi avrebbe allattato. Ci raggiunse anche mio padre. Mia madre non si trattenne e gli disse tutto. Anche lui, scompigliandomi un po’ i capelli, diede la colpa al sole. Poi se ne andarono insieme e io, fortunatamente, poco dopo, sprofondai in un sonno senza sogni che mi traghettò fino al mattino seguente.

Quando mi svegliai, sul mio comodino trovai una spremuta d’arancia con accanto il termometro e due compresse di aspirina. C’era anche un biglietto – questo con una calligrafia da adulto, per fortuna – con su scritto: Misurati la febbre e prendi un’aspirina se hai più di trentotto, firmato Mamma.
Mi misurai la febbre, ma non ne avevo.
La casa era deserta. I miei erano al lavoro e James era a scuola. Ero solo.
Addosso sentivo una leggera inquietudine: quello che era successo la sera prima mi aveva messo a disagio. Non mi era mai capitata una cosa così strana. Non mi sentivo per niente tranquillo lì dentro, ed è una cosa bruttissima non sentirsi a proprio agio in casa propria.
Fuori c’era un sole bellissimo, che illuminava casa di una luce potentissima. Decisi di uscire di casa, ma non prima di essermi fatto una doccia. Così mi diressi verso il bagno, ma a metà strada non potei non volgere lo sguardo verso la scrivania – che fino ad allora avevo volutamente ignorato – e ciò che vidi mi fece arrestare all’istante: c’erano di nuovo la tartaruga ninjia e il biglietto del giorno prima, ma non solo. C’era anche un altro biglietto, chiuso, e anche questo con su scritto, con quella scrittura da bambino, Per Constantine. Sentii un brivido scendermi rapido giù per la schiena come una goccia di sudore. Feci un profondo respiro e, lottando per non scappare, aprii il nuovo biglietto:
“Non hai ancora capito chi ti ha fatto il regalo? Quel regalo? Come fai a non ricordarti di me? Eravamo così amici un tempo…”
Gelai.
Presi il biglietto e lo strappai. Strappai anche l’altro e li gettai entrambi nel water tirando lo sciacquone. Aprii la finestra e, stizzito, gettai la tartaruga giocattolo fuori.
Sapevo che non poteva essere uno scherzo, ed era proprio questo a spaventarmi. Non poteva essere uno scherzo, perché non avevo amici che me ne potevano fare e né mio padre né mia madre erano tipi da fare una cosa del genere. Per non parlare di mio fratello James che anche se la scrittura sui biglietti sembrava quella di uno della sua età, certamente non poteva aver architettato una cosa simile. Ora, poi, non avevo più la scusa della febbre o dell’insolazione per giustificare quelle strane cose che mi succedevano.
In poco tempo, il panico prese i comandi della mia testa e del mio corpo. Iniziai a sudare a freddo e sentii il cuore iniziare una folle galoppata dentro la mia gabbia toracica. In quel momento la mia casa mi sembrò il luogo più insicuro del mondo: qualcuno riusciva ad entrare tranquillamente in casa e lasciarmi quegli strani biglietti.

Quando mia madre tornò dal lavoro, all’ora di pranzo, mi trovò seduto sul dondolo in giardino. Ero ancora in pigiama: dopo aver letto il biglietto non avevo resistito più di un minuto in casa, qualsiasi rumore mi provocava una stretta al cuore e allo stomaco: ero perennemente in allerta. Era maggio, non faceva freddo, così ero andato fuori di corsa, senza cambiarmi, ad aspettare che tornasse qualcuno.
Provai a spiegare a mia madre ciò che era successo, e lei pensò di spiegare tutto di nuovo con la scusa della febbre, ma stavolta non c’entrava, non ne avevo nemmeno una linea. Era preoccupata, mia madre, lo vedevo chiaramente, e io più di lei. In casa nostra non c’erano mai stati grossi problemi, tutto era sempre – per quanto ne sapevo io – filato liscio. Ma ora io sembravo dar di matto.

Pranzai con mamma e James. Pranzai per modo di dire perché non riuscì a mandare giù niente: il mio stomaco era blindato dall’ansia, dalla paura.
Nel pomeriggio arrivò il dottor Clark, il medico di famiglia, un uomo corpulento con degli occhialini rotondi e piccoli piccoli che stonavano con la stazza di chi li indossava. L’aveva chiamato mia madre.
Mi misurò la pressione, mi auscultò il cuore, i polmoni, insomma, fece tutte le cose che fanno di solito i dottori. Mi disse che non avevo niente, ovviamente. Perché effettivamente non avevo niente. Mi disse solo di uscire un po’ di più, di farmi una ragazza e di continuare a fare il bravo, insomma, tutte le cose che dicono di solito i dottori ad un ragazzo quando non sanno spiegare quello che ha. Poi uscì dalla mia camera e si fermò a parlare con la mamma nel corridoio, guardandosi bene dal non far partecipare anche me alla discussione.

Dopo la visita, decisi di andar a fare due passi, così mi vestii ed uscii. Mia madre volle che mi portassi appresso James.
Camminavo, tenendo per mano mio fratello e pensando solo a quei maledetti biglietti e a quel vecchio giocattolo.
Pensai che quello che mi ci voleva fosse svagarmi un po’, così andai al centro commerciale.

Dentro incontrai Tom, il bulletto della mia classe, e i suoi fedeli. Se ne stavano stravaccati davanti ad un fast food insieme alle rispettive ragazze. Forse mi dissero dietro qualcosa, sicuramente qualcosa per schernirmi, portarmi in giro, ma nemmeno ci badai. Passai dritto.
A James venne voglia di gelato, così andammo alla gelateria.
Fu quando dovetti pagare il gelato per James, che l’incubo mi saltò di nuovo addosso come un lupo affamato: tra le banconote che avevo tirato fuori dalla tasca per pagare c’era un pezzo di carta di quaderno con su scritto qualcosa. Mantenni la calma, non lessi subito. Pagai, presi il gelato e lo diedi a James, poi ci mettemmo a sedere ad un tavolinetto. Tremante, ripresi in mano il biglietto. C’era scritto:
Cos’è? Non ti è piaciuto il mio regalo? Perché lo hai buttato dalla finestra? Ci ho messo così tanto per ritrovarlo in quel pozzo…e pensare che un tempo eri così legato a Leonardo e a me. So che ti senti solo, ma quando c’ero io non lo eri. Ricordi? Ricordi quanto ci divertivamo? Certo, non ti sei comportato molto bene con me, ma non ho rancori, ora sono tornato e non ti lascerò più. Non sarai più solo. Mai più.”
Chiusi gli occhi e feci un lungo e profondo respiro. Mi dissi: ora riapro gli occhi e il biglietto è bianco, non c’è scritto niente sopra, anzi, tra le mani non ho niente.
Non fu così. Riaprii gli occhi e il biglietto c’era ancora e, quelle parole, pure.
Chi è che si diverte a farmi uno scherzo del genere?, mi chiesi.
Guardai James, tutto preso dal suo gelato, il nasino sporco di cioccolata. Con quel suo caschetto biondo e quegli occhioni azzurri ipnotizzati sul cono, sembrava l’icona della spensieratezza e della serenità. Io, invece, dovevo apparire come l’icona della paura e della preoccupazione. Quanto lo invidiai. CONTINUA QUI: Il ragazzo della stanza numero 16 (terza parte)


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