BUKKAKE (seconda e ultima parte)

5.
Crescendo, iniziai a farmi un sacco di domande. Soprattutto su mio padre. Non so perché, ma non avevo verso di lui quella stima incredibile che provavano invece i miei fratelli e che li portava a prendere per giusto, vero e certo ogni cosa da lui pronunciata. Accumulai dubbi su dubbi.
Poi, un giorno, non resistetti più, così chiesi a nostro padre quello che forse non dovevo chiedergli. Gli chiesi come mai, visto che eravamo nobili, non abitavamo in una reggia o comunque in qualcosa di più lussuoso di un appartamento di trenta metri quadri in periferia, dove vivevamo compressati come clandestini in un furgone alla frontiera. Finito di formulare la domanda, ci fu un attimo di silenzio. I miei fratelli rimasero a bocca aperta, come se avessero assistito a Davide che sfidava Golia. Solo che io, a differenza di Davide, non la spuntai. La risposta di mio padre a quella domanda fu un ceffone che mi fece fischiare le orecchie per diversi quarti d’ora, e a cui aggiunse:
“Vergognati a dire certe cose. I tuoi nonni…e tutti i nostri antenati, anche se sono nel regno dei morti, ti sentono e vedrai che te la faranno pagare prima o poi per il rispetto che non gli porti”.
Io continuavo a non capire così, non contento, dopo un po’ di tempo tornai alla carica: chiesi a mio padre come mai, se lui era un nobile, lavorava come operaio semplice in una fabbrica di canne da pesca. La risposta fu identica alla prima volta: cinque dita spalmate sulla mia guancia destra e la stessa minaccia di vendetta d’oltretomba che i miei nonni e gli antenati della nostra “sacra e nobile” famiglia mi avrebbero riservato.
Non ci credevo molto che i miei nonni, morti prima che io nascessi, insieme ai miei bisnonni e trisnonni, fino ad arrivare a Mejij in persona, stessero lì a sentire cosa dicevo – anche perché non dicevo nulla di male, chiedevo e basta. Comunque, per parecchio tempo non dormii tranquillo: la notte, prima di addormentarmi, rimanevo con un occhio aperto e uno chiuso, sia per esser pronto ad un qualche raid notturno dei miei fratelli contro di me, ma anche per il timore che qualche spirito tornasse dall’aldilà per risolvere questioni d’onore con me nell’aldiqua.
Poi successe che un pomeriggio tornai a casa prima del previsto – i miei fratelli come al solito mi avevano picchiato nel parco dove solitamente andavamo a giocare, così corsi a casa per medicarmi e per essere coccolato un po’ dalla mamma, l’unica che mi degnasse di qualche attenzione in famiglia. Entrai in casa. Dentro c’erano solo mio padre e mia madre, ma non mi sentirono rientrare. Erano in camera loro: litigavano. Il motivo non lo capii. Sentii solo mio padre che urlava, che le diceva che non si doveva mai più rivolgere a lui in quella maniera, e che doveva portargli rispetto perché lui era un nobile e lei “una povera sguattera”. Sì, così le disse “una povera sguattera”. Poi sentii mia madre che, in uno slancio di coraggio, gli disse che doveva smetterla con “questa bugia delle origini nobili”, una bugia che, negli anni, era diventata un qualcosa in cui lui stesso credeva, una realtà offensiva verso le “umili origini dei suoi genitori”. Gli disse pure che non era giusto dire a noi falsità, che avevamo il diritto di sapere chi erano i nostri nonni, sapere che erano dei contadini e non dei nobili. Una volta che mia madre finì di vomitare quelle parole, seguì un attimo di silenzio, poi, inevitabile, arrivò il rumore che fa la mano di un uomo quando si scaraventa violentemente – e più volte – contro il corpo di una donna.
Io, ingenuo, tornai di corsa al parco e provai a dirlo ai miei fratelli, dirgli ciò che avevo scoperto su papà, dirgli che non eravamo di origini nobili, che i nostri nonni erano semplici contadini, dirgli che papà ci diceva un mucchio di bugie. Il risultato fu che prima presi un sacco di botte da loro, poi da mio padre, e poi da mio padre e i miei fratelli insieme.
Da quel giorno divenni un estraneo per mio padre. Non che prima fossi qualcosa di significativo per lui: se doveva coinvolgere qualcuno della famiglia in qualcosa, qualsiasi cosa, dall’andare a fare una passeggiata, o semplicemente andare a pesca, coinvolgeva solo i miei fratelli maggiori. Mio padre li considerava più amici che figli – anche perché di amici non ne aveva – e se li portava dappertutto. A me, invece, non mi portava mai da nessuna parte. Diceva:
“Sei troppo piccolo per venire con noi”.
Oppure:
“Sei un bambino che sa frignare e basta e io quelli come te non li voglio intorno”.
Non era vero che ero un frignone, semplicemente non riuscivo a non piangere quando i miei fratelli mi usavano come punging-ball, oppure quando li vedevo uniti nel fare qualcosa da cui loro, puntualmente, mi escludevano. Ad influire molto, poi, c’era il fatto che i miei fratelli erano più grandi di me. Tra di loro erano anagraficamente vicini, mentre io ero nato diversi anni dopo: quando venni al mondo, tra me e il più piccolo della famiglia, Keiji, c’erano già sei anni di differenza, con il mezzano, Inejiro, otto anni, e con il maggiore, Masujiro, nove. Mio padre, poi, non sopportava il fatto che caratterialmente somigliassi a mia madre e non a lui. I miei fratelli erano suoi figuranti, io, invece, no, e questa cosa lo faceva imbestialire. Ma la cosa che di più lo infastidiva, era non riuscire a sottrarsi al giudizio dei miei occhi. Dentro, ma soprattutto fuori casa, faceva le cose peggiori: alzava il gomito, alzava le mani e alzava anche le sottane di diverse puttane. Forte anche del consenso dei miei fratelli, col tempo era riuscito a fregarsene del giudizio di sua moglie, ma non del mio. Evidentemente, non riusciva, nel profondo del suo inconscio, a non tener conto dei miei occhi – gli occhi, sede del giudizio dei figli verso i propri genitori. Per questo non mi voleva mai intorno.
In ogni caso, il fatto di esser diventato un fantasma per mio padre non fu una cosa del tutto negativa per me, visto che anche i miei fratelli, imitandolo in tutto e per tutto, iniziarono a prendermi sempre meno in considerazione. In termini pratici significava che le azioni punitive contro di me diminuirono.

Le cose cambiarono quando, un tumore al cervello, in meno di due mesi, si portò via la persona che per anni mi aveva – per quel che aveva potuto – protetto dalle ingiurie e dalle botte dei miei fratelli e di mio padre: mia madre.
Mia madre morì, e una parte di me con essa.
Mio padre, invece, parve rinascere. Ora non doveva più nemmeno uscire di casa, per ubriacarsi o andare a puttane: poteva fare tutto direttamente in casa, con i miei fratelli lì a guardarlo come se vedessero il loro eroe dei fumetti in carne ed ossa. E semplicemente perché io provavo disgusto per tutto ciò, venni bollato come la femminuccia di casa. Senza più mamma in casa, divenni ben presto una sorta di versione maschile di Cenerentola. Odiavo il lerciume che si creava in casa, così mi davo da fare per mantenere un po’ di ordine e pulizia. Ciò, però, fece sentire il resto della mia famiglia libero di sporcare ancora di più. Tanto c’ero io.

Passò del tempo. Le cose non sembravano migliorare, anzi.
Un giorno però mi arrivò una raccomandata: la mia domanda per entrare all’Università di Shangai era stata accettata, ed ero risultato idoneo per la borsa di studio. Corsi in camera, feci la valigia e, senza salutare nessuno, me ne andai.
Non tornai mai più a casa.

6.
Qui ed ora, in questa sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso a quanto ci tenesse Katsumi a conoscere la mia famiglia per il nostro matrimonio.
Non servì a nulla spiegarle che razza di gente fossero, che orribile persona era mio padre e che idioti fossero i miei fratelli. Provai anche a spiegarle che, quando morì mia madre, per me fu come se fosse morta tutta la mia famiglia: il resto erano degli estranei. Provai a farla desistere, ma fu inutile. Capii che per lei conoscere mio padre e i miei fratelli era importante, molto importante, e così l’accontentai.
Ingenuamente Katsumi credeva che, dopo tutto quel tempo, le cose tra me e loro si sarebbero sistemate.
“Il tempo sistema ogni cosa.” mi disse lei una volta, cadendo in una odiosa e banale frase fatta. Ma il tempo non poteva cambiare il mio passato, un padre alcolizzato e violento, e dei fratelli smidollati.
Katsumi diceva che se un giorno avessimo avuto un bambino, questo figlio nostro aveva diritto ad avere un nonno e degli zii anche dalla parte del padre.
Sapevo che lei voleva semplicemente vedere me, insieme a mio padre e i miei fratelli, felice e contento, ma sapevo anche che spesso gli altri, pensano di poter risolvere in un battibaleno questioni che noi combattiamo da sempre. Spesso però, gli altri, si sbagliano.

Quando mio padre rispose al telefono capii subito che era ubriaco. Lui mentì tristemente una certa gioia nel sentirmi per la prima volta dopo sette anni. Gli spiegai la situazione, insistendo nel dirgli che se non poteva venire, né lui o i miei fratelli, non sarebbe successo nulla. Mi rispose che mai si sarebbe perso le nozze del suo “adorato figliolo”. Lo salutai e, quando chiusi il telefono, mi accorsi di avere fronte e schiena madide di sudore: condensazione di una lotta contro vecchi demoni, una lotta durata il tempo di quella dannata chiamata.

Non fu difficile per quel vecchio bastardo di mio padre radunare il resto della famiglia.
Venni a sapere dalla sorella della mia povera madre, che Masujiro era da poco uscito di galera. Mentre Inejiro era riuscito a farsi dare un permesso speciale dalla clinica dove si stava disintossicando dalle anfetamine. Keiji non fu difficile da recuperare, visto che era diventato una specie di “maggiordomo” di mio padre.

Il giorno delle nozze si presentarono tutti infilati dentro squallidi smoking bianchi a noleggio. Sbarbati per l’occasione, e con il classico odore penetrante di dopobarba scadente, sembravano dei cani randagi portati ad un concorso di bellezza cinofilo da un benefattore senza senno. Provai quasi pena per loro. L’unica cosa che mi consolò fu vedere la contentezza di Katsumi nel conoscerli – anche se ero disgustato dalla recita di quei bastardi. Ma il sorriso di Katsumi era più importante. Questo era quello che contava per me. Avrei fatto qualsiasi cosa per vederla sorridere. Anche riaprire una porta su un passato che avevo serrato da anni.

7.
Qui ed ora, in questa sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso a mio padre e ai miei fratelli. Penso a quando li trovai tutt’intorno a Katsumi, con le braghe calate, mentre si spremevano i loro cazzi come tubetti di dentifricio addosso a lei. Lei che, tenuta ferma con una mano da Ryunj, se ne stava inginocchiata a terra, tutta sporca del loro sperma.
La portai via da lì, di corsa a casa.
La lavai, e dopo averle tolto lo schifo della mia famiglia di dosso, l’asciugai. La misi a sedere sul letto. Le pettinai i capelli a lungo. Seduta sul materasso, muta e con lo sguardo perso nel nulla, sembrava una bambola di porcellana. La baciai sulla fronte e la misi sotto le coperte. Entrai anche io nel letto.
Stetti abbracciato a lei per tutta la notte e, anche se non sentivo più le mie braccia – addormentate sotto il peso del suo corpo – non mi mossi da lì. Volevo solo farle sentire che io c’ero. Che ero con lei.
Nessuno dei due dormì in quella che fu la nostra prima notte di nozze.

8.
Qui ed ora, in questa sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta, e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso a mio padre che, mentre lo seppellivo vivo, legato come un salame, non faceva che ripetere tra le lacrime:
“Non l’abbiamo toccata….le abbiamo fatto solo il Bukkake….il Bukkake, lo sai, è tradizione nelle famiglie antiche come la nostra…non volevamo farle del male….è di buon auspicio, la renderà fertile, vedrai…”
Avevo sentito dire cos’era il Bukkake. L’avevo sentito anni prima proprio da mio padre mentre lo spiegava ai miei fratelli.
Il Bukkake – leggenda o realtà non saprei dire – era un antico rito di fertilità praticato da alcune famiglie giapponesi di antichissima tradizione, legate alla famiglia imperiale. Un rito, un dannato rito, che veniva compiuto dopo un matrimonio per garantire una lunga e prosperosa discendenza alla coppia. La sposa veniva ricoperta di sperma (sì, sperma) da tutti i convenuti al matrimonio – solitamente i parenti più stretti – che in tal modo dichiaravano di accettare la fanciulla come donna adulta e non più come bambina, con tutti i diritti e i doveri che ne conseguivano. La quantità di sperma indicava simbolicamente la lunga e prosperosa discendenza che i partecipanti al matrimonio auguravano alla coppia. Un augurio di fertilità.

9.
Qui ed ora, in questa sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta, e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso a quel tipo di spray che mi ero procurato tramite un mio ex compagno di classe pagando una discreta cifra, uno di quegli spray anestetizzanti usati dai ladri d’appartamento per svaligiare tranquillamente le casa anche con i proprietari dentro. Bastò una spruzzata per uno in faccia e caddero a terra come pere cotte, svenuti. Legarli e portarli dentro al bosco fu faticoso ma in qualche modo… gratificante.
Penso a mio padre che quando si risvegliò in quella fossa lì per lì non capì.
Penso a mio padre e a quando capì: prese a pianger disperato, non l’aveva mai fatto in presenza dei suoi figli. Nemmeno quando era morta la mamma. Com’era patetico. Faceva mille smorfie con la bocca, come un bambino viziato a cui per la prima volta viene detto “No”. Piangeva perché sapeva che la fine era vicina. Era spaventato a morte e la macchia d’urina che gli si andava allargando sui pantaloni ne era la palese dimostrazione. Singhiozzando non faceva che ripetere:
“Solo Bukkake, nient’altro…. l’abbiamo fatto per voi, per lei….volevo…. volevamo solo tanti nipotini.”
I miei fratelli, anch’essi legati e stipati nella fossa insieme al loro padre, come soldatini obbedienti anche in quel momento lo sostenevano, ripetendo in coro:
“È vero. Papà ha ragione.”
Se non li avessi conosciuti mi sarei commosso. Che famiglia unita, avrei detto.
Non ce la facevo più a sentire quelle cazzate, non ce la facevo più a sentirli gridare: mi ricordavano troppo i maiali prima di essere scannati. Presi la pala in mano e, di buona lena, iniziai a gettare la terra dentro quella grossa buca in mezzo al bosco – che avevo scavato per l’occasione la mattina dopo il misfatto.
Alla trentesima, forse trentunesima palata, la terra aveva messo a tacere quasi tutte le voci. Non tutte però, qualcosa come:
“…fertile……la vostra coppia…tanti nipoti…è la tradizione…Bukkake…è tradizione” si poteva ancora udire. Alla quarantesima badilata, si sentiva solo qualche mugugno. Poi solo il rumore di me che finivo il lavoro.

10.
Qui ed ora, in questa sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta, e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso a Katsumi. A lei che voleva tanto un bambino. Penso al fatto che, poche settimane dopo il nostro matrimonio, le diagnosticarono un tumore all’ovaia. Quando gliela tolsero, capimmo che di figli non se ne sarebbe mai più parlato.
Poi penso ai referti, alle ecografie, agli occhi increduli dei medici, alle riviste mediche con Katsumi protagonista come caso dell’anno. Penso alla gente che gridava al miracolo. Penso allo stupore, all’incredibile, all’amore. Penso alla tradizione, cazzo sì, penso alla tradizione.

11.
Sento dei passi lungo il corridoio. Vedo un’infermiera avvicinarsi. Viene proprio verso di me. Mi sorride. Dice:
“Complimenti, lei è padre di sei splendidi gemelli…può entrare a vedere sua moglie.”
Cazzo, sei gemelli!
Qui ed ora, in questa spoglia sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta, e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso che sono felice.


Licenza Creative Commons
BUKKAKE by JACOPO MAROCCO is licensed under a Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Unported License.
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