È opportuno che ognuno metta in conto che nella propria vita vedrà delle cose a cui non crederà. Siano esse belle o brutte, in ogni caso ci saranno cose che lo lasceranno sbalordito, a bocca aperta, e sebbene tutto ciò io l’avessi messo in conto, quello che vidi quando entrai in quella stanza fu qualcosa che neanche nel più terribile dei miei incubi avrei potuto immaginare.
1.
Qui ed ora, in questa sala d’attesa, senza quadri, senza una pianta e con solo tre sedie mezze arrugginite, penso. Penso al giorno del mio matrimonio. Più precisamente, alla sera del giorno del mio matrimonio.
Gli ospiti se ne erano già andati, era tardi e io ero stanchissimo, ed anche Katsumi doveva esserlo. La giornata era stata intensissima. Una giornata piena di emozioni, lacrime e gioia. Un matrimonio, insomma. Il mio e di Katsumi.
Oltre alla stanchezza, anche il sake, con cui avevo brindato più e più volte quella sera, non mi aiutava. In poco tempo entrai nella fase alcolica discendente, quella dell’assopimento e del mal di testa. Insomma, volevo andare a letto, ma era fondamentale che anche Katsumi venisse con me: primo, perché ero stanco; secondo, perché era la nostra prima notte di nozze; e terzo, perché ci saremmo dovuti alzare molto presto il mattino seguente per poter prendere in tempo l’aereo per l’Italia – il Paese dove avremmo trascorso la nostra luna di miele.
Katsumi, però, non si vedeva: nella sala dove era stata tenuta la cerimonia, oltre a me, c’erano solo i camerieri del catering che smontavano e caricavano su di un furgoncino ciò che era servito per il ricevimento.
L’ultima volta che avevo visto mia moglie, una mezz’ora prima, stava parlando con Keiji, mio fratello. La cosa non mi entusiasmò molto, ma la vidi serena, e questo bastò a tranquillizzarmi. Poi però la persi d’occhio.
L’errore fu quello di dividerci, ma in quel momento ci sembrò una decisione saggia: con il fatto che dovevamo ringraziare e fermarci a fare due chiacchiere con tutti gli ospiti, pensammo che salutare ognuno i propri parenti ed amici avrebbe ottimizzato i tempi e permesso di concludere la serata prima. Così ci dividemmo.
Katsumi, dove sei finita? Non sono passate nemmeno sei ore dal nostro matrimonio e già sei sparita? pensavo.
Una strana inquietudine mi assalì.
Mi allentai la cravatta, sbottonai il bottone del colletto della camicia e iniziai a cercare mia moglie.
2.
La cerimonia era stata celebrata in un’antica ed elegante villa d’epoca Azuchi-Momoyama ristrutturata ed adibita a luogo per ricevimenti: un luogo incantevole, che contribuì sicuramente a rendere la cerimonia speciale.
Molte zone della villa erano chiuse al pubblico, così setacciai quasi tutta la zona accessibile: niente. Chiesi ai camerieri che, come formiche, velocemente svuotavano di tavoli e sedie la sala ricevimenti: nessuno l’aveva vista.
Dopo aver girato a vuoto per venti minuti, iniziai a preoccuparmi. Andai fuori e guardai nel parcheggio, nei giardini e sul retro: di Katsumi nessuna traccia. Decisi di rientrare nella villa.
Controllai di nuovo i bagni, sia quelli delle donne, che quelli degli uomini: deserti. Non avevo il telefonino con me, e neanche Katsumi lo aveva: entrambi avevamo lasciato i propri cellulari a casa, d’altronde che ce ne facevamo del telefonino il giorno del nostro matrimonio? Invece quell’aggeggio infernale sarebbe servito moltissimo.
Stavo andando dal direttore della struttura per chiedergli se per caso avesse visto mia moglie, quando passando davanti ad una porta con su una targhetta con la scritta PRIVATO, sentii distintamente dei mugolii. Probabilmente ero già passato lì nella mia prima escursione, ma non avevo sentito nulla. Ora, invece, si sentivano chiaramente delle presenze al di là di quella porta. Indugiai qualche secondo, poi misi la mano sulla maniglia della porta e provai ad aprirla, sicuro che non si sarebbe mai aperta. E invece si aprì. Quella maledetta porta si aprì, e finalmente trovai Katsumi. Katsumi che, purtroppo, non era sola.
Con la mano ancora sulla maniglia, passai qualche istante di confusione totale. Mentalmente mi chiesi se ciò che stavo vedendo, stesse realmente accadendo. Speravo che fosse un’allucinazione. Una dannata allucinazione. Un’illusione ottica. Tutto, avrei sperato che fosse, qualsiasi cosa, chessò un incubo, un terribile e fottuto incubo, ma certamente non la realtà, la realtà da cui sapevo di non potermi svegliare.
Katsumi se ne stava lì, in ginocchio. Guardava a terra, piangeva. Intorno a lei, loro. Loro che mi guardavano. Inespressivi. Immobili. Sembravano iene ridens intorno alla carcassa di una gazzella.
Capii subito che tutto era già stato fatto, che tutto, ormai, era compiuto. Che l’incubo non era un incubo, ma un orribile realtà. Non potevo fare più niente.
Il senso d’impotenza mi invase e fu straziante. Non so cosa mi permise di restare in piedi, di non cadere a terra.
Mi avvicinai a Katsumi e l’aiutai ad alzarsi.
Loro, sempre immobili, scrutavano ogni mio movimento.
Katsumi, singhiozzando e continuando a guardare a terra, si strinse a me. L’accolsi tra le mie braccia come un papà che aveva appena ritrovato la sua bambina dopo un lungo vagare. Tremava. Le sussurrai all’orecchio:
“Piccola mia, ci sono io ora, stai tranquilla.”
Alzai il viso: li vidi sempre lì, come paralizzati, a guardare senza espressione me e Katsumi. Senza voltarmi e guardandoli in faccia, iniziai a camminare all’indietro con Katsumi tra le braccia. Con uno sguardo che poteva significare solo una cosa, li guardai ad uno ad uno, fino a che non uscii definitivamente da quella stanza.
Una volta fuori, sentii delle risate.
3.
È risaputo, è un luogo comune. Chiedetelo a chiunque. Domani, chiedetelo alla cassiera del supermercato dove andate di solito a fare spesa. Chiedetele:
“Nelle famiglie con più di un figlio, è vero che l’ultimogenito è quello più coccolato, il più viziato?”
“Certo!” vi risponderà, guardandovi con l’aria di chi si è sentito chiedere una cosa scontatissima, banale. Statene certi, nessuno esiterà. Di fronte ad una domanda del genere, tutti vi diranno:
“Sì, certo che è vero!”
No, non è vero invece. Fidatevi. O almeno, a me non è andata così, nonostante fossi l’ultimo di quattro figli. E poi non so perché ma anche nelle famiglie, soprattutto in quelle numerose come la mia, vige una sorta di darwinismo dove i più forti vincono e i più deboli soccombono – nella fattispecie della mia famiglia, mio padre e i miei fratelli maggiori erano i forti, io e mia madre i deboli.
4.
Mio padre, ci ha cresciuto col mito della personalità. La sua.
Diceva che la nostra era una famiglia di origini nobili. Una famiglia molto antica. Diceva che lui era addirittura un diretto discendente dell’imperatore Mejij. Diceva tutto ciò approfittando del fatto che il suo cognome – il nostro cognome – era Mejiui, e quindi simile a quello dell’imperatore. Lui diceva che con il tempo il nome si era modificato, ma che la linea di discendenza era la stessa. Così, a me e ai miei fratelli, ci faceva sempre lunghi discorsi sull’onore e sul rispetto che gli altri dovevano prestargli. Lui che aveva “sangue blu nelle vene”. Lui “discendente della dinastia imperiale Mejij”. Ogni tanto, poi, si ricordava che anche noi, essendo figli suoi, avevamo origini nobili, così allora ci si raccomandava di portar alto il nome della famiglia. A scuola, al parco, o in qualsiasi altro posto andassimo, dovevamo ricordarci la storia famigliare che portavamo sulle spalle e quindi farci rispettare. Noi che avevamo “sangue blu nelle vene, noi discendenti della dinastia imperiale Mejij”.
I miei fratelli non persero tempo e, prendendo alla lettera le raccomandazioni di papà, divennero ben presto ottimi picchiatori. Picchiavano chiunque infangasse, a detta loro, la nostra nobile discendenza. Io, invece, me ne fregavo. Non m’importava nulla dell’onore della nostra famiglia.
BUKKAKE (seconda e ultima parte)
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