Il teletrasporto ci renderebbe obesi

A Ciri, ancora.

Lo spirito di sopravvivenza squilibrato. Sballato. Un nemico.
Le lauree specialistiche ne “Il sabato del Villaggio”. La donzelletta vien dalla campagna. Io pure.
Dolci pause nella visioni in streaming di Lolita. Lo-li-ita.
I cocainomani che pensano di non essere tossicodipendenti.
Cercare lavoro è un lavoro. Non retribuito. Come gli altri.
Dr.ssa Jekyll e Mrs. Hyde, non assefuarti, ti prego, all’aggettivo “bella”.
Un ippopotamo nella zona industriale di questa cazzo di città.
Il fastidio delle pubblicità prima dei video su youtube. Skip intro una sega.
La cura certosina nel rifare il letto. I tuoi capelli color autunno.
L’ansia fottuta del capodanno. Quest’anno non ci casco, quest’anno non ci casco e poi ci casco sempre.
I comunisti col conto in banca. I comunisti che lavorano in banca e la crisi delle banche risolta dai banchieri.
Che non mi piaccio quando ritrovo i miei genitori nei miei gesti. Matite negli occhi e amori d’acciaio. Baci ad ex presidenti della Camera.
I tuoi vestiti corti con tuo padre che non è in pensione, ma guida autobus di linea nel Dorset.
L’educazione musicale di un ragazzo ai Radiohead e il voler essere a tutti i costi il migliore, per te.
L’idiozia degli acquari. L’assurdità delle gabbie. La stupidità dei circhi. La crudeltà degli zoo. Natura formato famiglia. Savana formato tortura.
La telepatia, che qualcosa vorrà pur dire. E poi capisci di essere diventato adulto quando devi tirare lo sciacquone due o tre volte dopo esser andato di corpo.
Quando torno facciamo questo. Quando torno facciamo quello. Sì, ma quando torni? Quando cazzo torni?
Un riccio di mare sacrificato per nulla.
Il sacro dieci dieci duemiladieci e una cena a base di vino davanti al Duomo di Milano, sotto un cielo in cui svettavano strani oggetti luminosi.
Le mestruazioni ad orologeria nel Trentino Alto Adipe.
Andare a visitare quei giardini coi mostri. Quando? Bo, marzo? Senza dimenticarsi che gli esami non finiscono mai, come le psicoterapie.
Conoscerti a mensa, e amarti da prima. Senza saperlo.
Un tempo spacciavo bidets a livello internazionale e dicevo: “Mi aspetto il meno da te, per avere il più”, ma non ho ancora imparato a farlo.
Che poi certi giorni vanno dormiti e basta. E i postponi della sveglia rimandati troppe volte. Che mi dispiace troppo.
Negli aereoporti c’è sempre un gran vento e gente che mi scorreggia vicino. E quindi fortuna il vento.
Ci deve essere stata una riunione in cui è stato deciso che la lingua inglese deve essere la lingua del mondo. Una riunione in cui io e altri miliardi di persone non siamo stati invitati.
Tu la mia benzodiazepina, tu la mia venlafaxina.
Una tenda Quecha 2” come un castello. Una fortezza. Una tana.
Scorte per un inverno freddo freddo.
Tu che dici che oggi è il tuo compleanno a un americano che non capisce e ti dice grazie.
Tu che possiedi le versioni integrali delle cose, anche di questa.
Il silenzio nelle case senza decoder. Il digitale extra-terrestre.
Le cose che cambiano, evolvono, che si colorano.
Stare in casa col cappotto. Il pigiama come seconda pelle quando sei sotto esame.
Affanculo le distanze. Davvero, ‘fanculo.
E gli intellettualoidi o gli artistoidi che non t’ameranno mai come t’amo io. I radical chic senza radical de I Cani. I finti alternativi che parlano un po’ così, cioè tipo, Pisa, piselli, l’Università non t’impara nulla.
I miei occhi che ti guardano, come ti guardano. Ti spogliano, ti rivestono, ti accarezzano e ti fanno l’Amore.
Che l’ultimo giorno di scuola mi commossi pensando a tutto, che mi sentivo una bambina o un ministro del lavoro.
E se ci pensi, il teletrasporto ci renderebbe obesi. Però sarebbe qualcosa di davvero ecosostenibile, e sicuramente più utile della TAV. E se ce l’avessi avuto lassù l’avrei usato sicuramente. Ma anche adesso.
Lassù dove dappertutto c’eri tu.
Vorrei un mignon delle tue cosce per averle sempre con me. Un mignon delle tue mani per stringerle quando ho paura. Un mignon dei tuoi piedi per baciarli quando ne ho voglia. Feticismo prêt-à-porter.
Le gare a chi si ama di più.
Cinque milioni e quattrocento-ottanta secondi senza di te. Quindi ci vuole Karma e sangue freddo.
Crocifissi al contrario e i contrari ai crocifissi. E quei giorni in cui ricevevo messaggi solo dalla vodafone o da mia mamma. E in alcuni era più tenera la vodafone che mia madre.
Non dimenticarti, ti prego, che tu sei un desiderio espresso in una notte da ubriaco, mentre guardavo le stelle fissate in mezzo a un cielo sporco sporco. Un desiderio espresso, e poi avverato.
I fazzoletti sporchi di sperma gettati nel cestino dell’organico. Eiaculazioni a cinque stelle.
Voci impersonali che ripetono che il database dei virus è stato aggiornato.
I discount pieni di nostri sosia. I nostri sosia dell’est.
L’amore sta nelle budella, non nel cuore. E allora mostrarsi le budella nel giardino di una tua amica l’ultimo dell’anno.
Dal niente creare catastrofi. Sconvolgersi per il niente. L’ingigantimento del nulla.
Farò fare un filone di pane della tua altezza, lo aprirò in due, ti ci metterò dentro e ti mangerò. Così soddisferò, forse, il bisogno materiale di averti dentro.
La forza e la debolezza di un sms.
Quando ti dico “Ti amo” non lo dico io, ma le mie budella. Quando ti dico “Mi manchi” non lo dico io, ma le mie mani. Quando mi dici “Amore”, io muoio e vado in paradiso.
Morire e risorgere su Skype.
Le reflex, le cazzo di reflex. Darsi un tono con una reflex. La reflexmania. Evviva le compatte. Vaffanculo.
Origami soffocati in una scatola.
Momenti di NON trascurabile felicità.
Il centro commerciale sopra il tuo cuore.
Mi chiedo se non faccio un uso eccessivo della parola AMORE, amore.
Digerire immagini. Provarci. Bicarbonato a colazione, pranzo, merenda e cena.
Le mostre personali e i mostri personali.
Kiss me lecia.
Dire cazzate.
Tutti questi intellettuali. Tutti questi cazzo di intellettuali. Tutti questi intellettuali del cazzo.
La scelta sacra dei ristoranti.
I database che scoppiano di curricula. I nostri curricula.
Averti addosso. Non resistere e scoppiarti dentro.
Sentirti ridere insieme alle badanti che arrotondano coi vecchi ai giardini pubblici.
Il tuo metodo vincente. Io che mi credevo maturo. I miei metodi sbagliati.
I tuoi capelli dappertutto, messi sul cuscino per fingere di dormire con te.
Quel giorno in piscina che tu eri piccola e io pure. Ma non mi guardavi, ma io sì.
Quel desiderio che ho ogni tanto di svitarmi la testa e gettarla via lontano. Lontano. Lontano.
L’indignazione generale che ha le ore contate. Che non è nient’altro che una moda. Che come tutte le mode passerà. Non i politici però, perchè la pazienza non è la virtù dei forti, ma la loro. E di certo non mia. O forse sì. Sì.
Personaggi mai visti, che nella mia immaginazione sono mostri a tre teste, cerberi che ti portano via da me.
Provare la sensazione di essere da qualche parte e non voler essere in nessun’altra. Io, bulimico nel volerti soddisfare.
Pensarti fra tanti anni. Pensarti tra tanti anni. Pensarti in tanti anni. Pensarti.
La differenza tra il venirsi contro e il venirsi incontro.
Proteggerti anche quando non te ne accorgi.
La puzza dei marsupi dei marsupiali.
Le tue colleghe e gli altri che ci vedono bene. L’occhio di Mal. Il colore rosso. Rosso. Rossissimo.
Pensare in silenzio per non farmi sentire. Da te. Pensare a un luogo per vivere. Con te.
Nonne che parlano con le bambole. Gli orsi comunisti al sicuro nella tana.
Sentirti crescere guardando Edward Norton che dice a Marla: “Andrà tutto bene!”



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“Il teletrasporto ci renderebbe obesi” by Jacopo Marocco is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.

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