Grullarello (prima parte)

A Renzo, a sua figlia e a tutti gli altri…


1.

Stefano era contento da morire quella sera: suo padre gli aveva lasciato la Golf per uscire con Silvia. Oh, da quanto sognava di farlo… Eh ma quella era una serata speciale: Stefano aveva portato Silvia a cena a casa sua, per annunciare ai propri genitori che si sarebbero sposati.
Quando Stefano e Silvia avevano dato la notizia ai genitori di lui, la madre di Stefano abbracciò entrambi alternando lacrime a larghi sorrisi mentre suo padre, per festeggiare, aveva aperto una delle due bottiglie da collezione che conservava da anni – l’altra, disse, l’avrebbe lasciata per quando sarebbe nato il primo nipotino. Il vino s’era rivelato simile all’aceto, ma poco importava. Era stata proprio una gran bella serata.
Uscendo di casa, dopo cena, Stefano aveva preso sotto braccio Silvia e, sorridente, gli aveva detto che era felicissimo di come era andata la cena. Anche Silvia lo era.
Ora sarebbero andati un attimo a salutare gli amici in paese, poi si sarebbero fermati in qualche posto per stare un po’ da soli, e poi di nuovo a casa, ognuno nella sua però: a vivere insieme ci sarebbero andati più in là, una volta sposati.

La Golf andava che era una meraviglia sotto un cielo di giugno sereno ma senza luna. Nonostante il buio, Stefano staccò un attimo gli occhi dalla strada e si voltò per guardare Silvia, e mentre la guardava pensò a quanto fosse bella, e di esser per la prima volta davvero felice in vita sua, ma non felice come quando l’Italia aveva vinto i mondiali o come quando suo padre aveva beccato un terno secco al lotto e con la vincita ci si era comprato la Golf che ora stava guidando, no, qualcosa di più e di diverso, qualcosa che lo faceva sentire pieno, e in perfetta armonia col mondo.
Sentì che doveva baciarla. Accostò. Silvia lo guardò con aria interrogativa. Lui le si avvicinò, lei capì, sorrise e si baciarono.
Poi lei si staccò un attimo e disse:
“Ci aspettano gli altri…”
Lui la guardò, sorrise, le baciò un seno da fuori la maglietta, inspirò un po’ l’odore del tessuto – sapeva di magnolia-, la guardò di nuovo, sorrise ancora e disse:
“Ho voglia di stare con te adesso, non mi importa degli altri…”
“Beh potremmo dire che abbiamo bucato…”, fece complice lei.
“Ti amo!”, disse secco Stefano, baciandola di nuovo. Poi si staccò e aggiunse:
“Sì, ma andiamo in un posto più tranquillo.”
Così rimise in moto la macchina e partì.
Fece tutto il tragitto restante con la sua mano destra nella mano di lei, cambiando marcia usando la sinistra e lasciando inevitabilmente per qualche istante il volante.
Imboccò una strada sterrata che portava ad un casolare abbandonato e si fermò in uno spiazzo lontano una ventina di metri dall’abitazione.
Devo essere proprio sulla Luna stasera se ho portato la Golf di papà su questa stradaccia, guidando pure con una mano sola, pensò Stefano.
Alla loro destra il bosco, alla loro sinistra un campo.
Poco dopo aver fermato la macchina, senza dire nulla, Stefano si sporse verso Silvia appoggiandole la testa sul petto. Lei prese a carezzargli i capelli. Rimasero un po’ così, in silenzio. Poi lei fece:
“Sai? Da quando ti conosco mi sento come se stessi su di una mongolfiera: vado su, su e su, sempre più su, leggera e libera, alta nel cielo, poi però, ogni tanto, non essendoci a abituata a starci così in alto, ho paura, una paura tremenda, come adesso: so che sono felice, so che si sta bene quassù, con te, ma ho paura, paura che cambi il vento o che si rompa il pallone della mongolfiera, insomma che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che mi faccia precipitare improvvisamente, finendo spiaccicata a terra.”
“Silvia, anche io c’ho paura, e credo sia normale: quando uno c’ha qualcosa di prezioso tra le mani, ha sempre paura che qualcuno o qualcosa glielo possa strappare via, per cui ecco, credo sia normale,” Stefano sospirò, fece una pausa, poi riprese: “lo sai che non sono tanto bravo a spiegarmi, però quello che voglio dire è che quello che provi è normale per chi come me, come noi, non è abituato a star bene, alla felicità, poi sappi che io per te ci sarò sempre e che quindi non devi aver paura di nulla perché non sei sola.”
I due si guardarono, ressero un po’ lo sguardo, seri, poi sorrisero contemporaneamente. Presero baciarsi con passione. Iniziarono a mischiarsi le proprie salive e a respirarsi a vicenda.
In poco si ritrovarono entrambi nudi.
Avidi uno del corpo dell’altra presero a fare l’amore in tutti i modi possibili in cerca di una posizione comoda.
Alla fine Silvia riuscì, tenendosi con una gamba sul volante e con una sul cruscotto, a far spazio a Stefano che da davanti, ora, riusciva ad entrare meglio dentro di lei. E finalmente ora Silvia sentiva, sentiva molto meglio Stefano dentro di sé, e non come prima che ogni poco usciva fuori.
Lei lo guardava fisso negli occhi, stravolta dal piacere, e ancora una volta pensò alla bellissima serata appena trascorsa, ai genitori di lui felicissimi, pensò anche ai suoi di genitori, all’assenso che suo padre aveva dato al matrimonio, pensò al fatto che quel ragazzo con cui ora stava facendo l’amore presto sarebbe diventato suo marito e pensò che l’amava e si sentì felice, ma non felice come quando si diplomò con 60/60, oppure come quando, per i suoi sedici anni, i suoi le regalarono un cucciolo di maremmano, no, era qualcosa di più e diverso, qualcosa che la faceva sentire piena, e in completa armonia col mondo.
Silvia iniziò a godere in maniera sempre più forte: nell’attimo in cui faceva quei pensieri, in cui aveva realizzato di essere innamorata e felice, Stefano aveva preso a darci dentro in un modo che la stava mandando in estasi. Prese a ad urlare di piacere, dapprima piano, poi sempre più forte, incitata da Stefano che le ripeteva:
“Sì, godi amore mio, godi, urla tutto il piacere che provi, qui non ti sente nessuno.”

2.

A sentire quella frase, a sentir dire da quello dentro la macchina: Urla tutto il piacere che provi che tanto qui non ti sente nessuno, a Paolo santini, classe 1952, disoccupato, sussidio statale n.3910 per un’invalidità mentale che solo lui e il suo medico sapevano essere finta, venne da sorridere.
Paolo Santini, detto “Grullarello” perché da tutti in paese considerato un tonto, lo scemo del villaggio, pensò tra sé: beh, nessuno nessuno proprio no, ci sono io che sento.
La coppietta aveva un finestrino aperto per cui Grullarello riusciva a sentire bene tutto quello che dicevano, anche se era a cinque, sei metri di distanza. E mentre sentiva le grida di piacere della ragazza lui prese a menarsi l’uccello ancora più forte. I ragazzi avevano anche lasciato la luce dell’abitacolo accesa, così lui, che stava leggermente più in alto rispetto a loro – coperto dal grosso tronco di una quercia -, riusciva anche ad intravedere qualcosa: un seno di lei, un po’ del suo viso, il culo di lui, una coscia di lei… Aveva aspettato a lungo quella sera, ma alla fine la sua pazienza era stata ripagata, anche perché era difficile che sarebbe “andato in bianco”: in quel posto anche durante la settimana, minimo una coppietta a sera ci veniva.
Stava per venire, Grullarello, ma si interruppe quando sentì – e poi vide – una macchina avvicinarsi e spegnere il motore, una cinquantina di metri più in là.
Grullarello pensò: Stasera c’è da fare parecchio, appena finito con questi, mi vado a guardare l’altra coppia e se mi va mi tocco di nuovo, ma ora pensiamo a questi qua… E così tornò a guardare nella macchina che aveva davanti riprendendosi a toccare.
Poco dopo i ragazzi giunsero all’apice del piacere. E Grullarello insieme a loro. Vennero a tre: i ragazzi nella macchina, lui dietro la quercia.
Appena dopo l’orgasmo, a Grullarello la coppietta non gli interessava più: ora sopravveniva quella sensazione di colpa per aver fatto quello che aveva fatto e non vedeva l’ora di andarsene da lì, anche se sapeva che qciò sarebbe durato poco e che di sicuro si sarebbe fermato a guardare anche la coppietta arrivata poco prima un po’ più in là.
Si stava pulendo il pene con un fazzoletto di stoffa quando sentì dei rumori, sembravano dei passi. Guardò i ragazzi, ma loro non sembravano essersene accorti, continuavano a baciarsi e carezzarsi. Sarà qualche cinghiale, pensò Grullarello, ma non appena terminato questo pensiero sentì di nuovo – e stavolta distintamente – rumore di passi sulla strada sterrata, ma era buio e non riusciva a vedere tanto più in là.
Poi successe tutto in fretta, quasi che non ebbe il tempo di capire se ciò che succedeva davanti ai suoi occhi fosse vero o no: un uomo s’avvicinò velocemente alla macchina dei ragazzi, dalla parte del guidatore, e con quella che doveva essere una pistola aprì il fuoco.
Quattro colpi. Poi altri cinque.
Grullarello, grazie alla luce dell’abitacolo accesa, vide i corpi dei ragazzi sobbalzare sotto il fuoco dei proiettili e il loro sangue schizzare per tutta la macchina, ma non riusciva a vedere chi fosse a sparare: quell’uomo rimaneva nella penombra. Poi però quell’uomo aprì la bocca per dire: “Oh, ma ti voi movere!”. E allora Grullarello capì. Capì chi era quell’uomo anche senza vederlo: era il Vampa.

CONTINUA QUI: Grullarello (seconda e ultima parte)


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Grullarello by Jacopo Marocco is licensed under a Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Unported License.
Based on a work at https://jacopomarocco.wordpress.com/2012/09/29/grullarello/.
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