Villa Rometti (terza e ultima parte)

La leggenda della figlia del Conte veniva fuori spesso quando ci si ritrovava a parlare di storie di paura, di fantasmi, insomma di cose paranormali. Era la leggenda più famosa del paese proprio perché riguardava qualcosa che era parte del patrimonio di quella piccola comunità. Qualcosa che portava il fascino del paranormale, dell’inspiegabile, anche in quello sputo di paese.
Secondo questa leggenda, secoli addietro – nessuno sapeva con precisione quanti – Villa Rometti apparteneva ad un conte, il conte che poi diede il nome alla villa. Il Conte Rometti, appunto. Questo conte era padrone, oltre che della villa, di quasi tutte le terre intorno a quello che era il nucleo originario del paese. Il conte aveva una moglie e una figlia, sua unica erede. E questa unica figlia fu tutt’altro che la gioia di suo padre: alla ragazza piaceva passare molto del suo tempo con i ragazzi del paese, soprattutto con quelli che lavoravano per suo padre – forse per sfregio o forse perché alla fine quasi tutti lavoravano per suo padre, chissà. E tutto all’insaputa del conte, ovviamente. Maniscalchi, stallieri, giardinieri, custodi delle tenute, tutti. Andava con tutti quella ragazza.
Il segreto però non durò molto. Suo padre venne a saperlo, e nel peggiore dei modi: la trovò nel proprio letto insieme a due garzoni. Furioso con sua figlia – per aver profanato il proprio giaciglio e per aver infangato il nome della famiglia -, e furioso con chi se ne approfittava, prese la spada e uccise sul posto i due garzoni. Poi toccò alla sua erede che, portata fuori casa e costretta a mettere la testa su di un ceppo di legno, fu decapitata dal padre con la stessa spada con cui erano stati uccisi i suoi amanti. Dopo di che il conte ne prese la testa e la appese all’ingresso della villa – dove ci trovavamo noi in quel momento – come monito per chi aveva osato approfittare e profanare il sangue del sangue della sua famiglia.
Ecco perché guardavo il soffitto del porticato: perché era lì che un tempo, secondo la leggenda, il Conte aveva appeso la testa della figlia.
“Dai, è una stupida leggenda…” sminuì lei.
“Ma sì, infatti,” feci io poco convinto e guardando al di là del porticato, dove si intravedeva il davanti della villa.
“E poi non mi ci far pensare neanche che sennò mi spavento…” aggiunse.
Con un ultimo sorso finì la birra e, in una maniera che non saprei definirei, disse:
“Piuttosto, perché non ti avvicini un po’, e magari mi abbracci che ho freddo…”. Così scese dal motorino, ci si appoggiò solo col sedere e mi tese le mani. Io le afferrai e lei mi strinse a sé. Era caldissima, ricordo. Ogni pensiero sulla figlia del Conte sparì all’istante.
Mi baciò.
La baciai, non riuscendo a non chiedermi se la stessi baciando bene o meno. Non scorderò mai il suo sapore, un misto di saliva, birra e sigaretta.
Poi la sentii prendermi una mano, passarsela sulla pancia e poi più su, sul suo seno destro. Tutto ciò fuori dalla camicetta. Poi, guardandomi con un sorriso provocante, si slacciò i bottoni sul davanti, si allargò la camicia e mi fece vedere il suo seno. Quella vista – per quel che potevo vedere con quella poca luce – mi fece quasi trasalire. Intanto la pioggia diminuiva di potenza sempre più: il temporale sembrava stesse scemando. Cercai di avvicinarmi per baciare quel suo bel seno, ma improvvisamente lei mi scostò da sé, mi allontanò. Si risistemò la camicetta e ordinò:
“Togliti la maglietta!”
Io, nonostante il freddo, ubbidii senza batter ciglio. Così dev’essere, pensai, quando si è ipnotizzati. Sentii i miei capezzoli, scoperti, al contatto con quell’aria elettrica, diventare piccoli e duri.
“Togliti anche i pantaloni”
Rimasi qualche frazione di secondo immobile, dubbioso. Presi la birra, la scolai tutta e poi, rompendo ogni indugio, mi calai i pantaloni rimanendo in mutande. Quindi mi avvicinai di nuovo a Susy.
“Fermo lì” mi fece. Io non ribattei. Ero in suo potere. La guardavo e basta, cercando solo di capire cosa volesse fare.
Faceva freddo. Mi abbracciai da solo per disperdere meno calore possibile. Lei mi fece un sorriso nevoso. Io, come un ebete, a circa un metro da lei, fermo e immobile. Riuscii solo a chiedermi perché Matteo non mi chiamasse, realizzando subito che lì non c’era campo.
Iniziai a tremare. Lei guardava nervosamente verso la strada, come se fosse in attesa di qualcuno. Non capivo. Sentivo solo tanto freddo. Qualche istante e poi la pioggia prese di nuovo a farsi forte, violenta. Sulla strada, grosse gocce d’acqua cadevano nelle pozzanghere formando all’impatto delle grandi bolle. Un lampo illuminò a giorno tutto intorno. Seguì un tuono che ancora sento rimbombare nelle mie orecchie per quanto fu forte. Vidi Susy spostare lo sguardo dalla strada a me e quello sguardo diventare da ansioso a spaventato. Poi mi venne incontro e mi abbracciò.
“Ho paura” fece, “Non smette di piovere, non smette, non smette, non smette…” disse quasi terrorizzata.
Con un coraggio che stupì anche me, nudo com’ero, l’ abbracciai forte e cercai di tranquillizzarla, carezzandole i capelli e dicendole che c’ero io lì con lei, che non era sola, e che avrebbe smesso di piovere di lì a poco. Allora lei, singhiozzando, me lo disse. Staccandosi leggermente da me, disse:
“Volevamo farti uno scherzo”
“Che scherzo?” chiesi.
“Era tutto organizzato: il fatto di prendere le sigarette ad Andrea, io che ero al bar…”
“Non capisco” dissi, ed era vero, non capivo cosa stesse dicendo.
“Dovevo portarti alla Cava, farti spogliare, poi prendere il motorino e lasciarti lì. Gli altri sarebbero stati dietro i cespugli a godersi la scena di te nudo che rimanevi lì come un coglione, ma la pioggia ha mandato a monte tutto… Ho cercato di avvertirli del cambio di programma, ma il cellulare non prende qua, così, sperando che spiovesse e che immaginassero che ci fossimo accampati qua, ho cercato di improvvisare…”
“Ah” dissi a mezza bocca, quasi sussurrando e fu l’unica cosa che riuscì a dire dopo la sua confessione.
“Scusami, scusami davvero… io… sono davvero mortificata…” tornandomi di nuovo addosso.
Rimasi in silenzio, sentendomi inondare il corpo di una bruttissima sensazione, un mix di tristezza e rabbia.
Chiesi: “Anche Matteo c’entra quindi con lo scherzo?” Era l’unica cosa che mi importava.
“Sì,” mi disse, ma l’avevano costretto, lui non voleva, però alla fine aveva dovuto cedere perché Andrea il palestrato gli aveva promesso botte se non faceva la sua parte e non mi prestava il motorino.
Sapere che Matteo non aveva avuto parte attiva nello scherzo mi rincuorò un po’.
“Non so come farmi perdonare, mi dispiace tanto per tutto ciò, tu sei una persona buona, sei sempre così gentile con me, non te le meriti certe cose, mi sono lasciata trasportare dagli altri, Andrea, Mirko, Manuel, sai come sono fatti… spero potrai scusarmi prima o poi…” aggiunse Susy.
“Non ti preoccupare, non ce l’ho con te, non ce l’ho con nessuno” dissi. Non riuscivo a portare rancore, né verso lei, né, forse, verso gli altri.
Poi, dopo che per un po’ le nostre guance si strusciarono l’una contro l’altra, piano piano, sentii avvicinare la bocca di Susy alla mia. Quando la baciai sentì distintamente il sapore salato delle lacrime. Doveva aver avuto una bella paura. Indietreggiò, restandomi sempre abbracciata, portandomi con sé fino al motorino. Ci si appoggiò e prese le mie mani e le mise sulle sue tette, da fuori. Le palpeggiai. Finii di aprire da solo la sua camicetta e gliele toccai, le palpai meglio ma sempre da fuori del reggiseno. Lei, con un abile mossa, se lo slacciò e io potei finalmente avere tra le mani i seni di Susy. Sentii lei accarezzarmi la schiena, i fianchi, la pancia per poi arrivare lì. Lì dove io sembravo morto. La sentii accarezzarmi prima da fuori, poi da dentro le mutande, abbassandomele. Presi a baciarla, senza mollare mai le sue tette. Intanto la sentivo che mi carezzava con insistenza e io cercavo in tutti i modi di farmelo venire duro. Pensavo: son qui con la donna dei miei sogni, la ragazza che desidero di più al mondo, la più bella di tutte le ragazze che conosco, la “regina dei pompini”, come qualcuno la chiama, il “bus”, la “nave scuola”, il “taxi”, la “ruota panoramica”, la “maestra”, e non mi riesce di farlo venir duro, che figuraccia, forse sono gay, no non lo sono ma è questo quello che penserà Susy di me se a breve non si deciderà a smuoversi qualcosa là sotto.
Poi Susy si staccò da me. Ecco, pensai, ora mi dice di riportarla via nonostante la pioggia, che con uno che in sua presenza non riesce a farselo indurire, lei non vuole averci niente a che fare. Già la vedevo a dirlo a una sua amica che poi l’avrebbe detto a tutto il resto del mondo. Invece mi guardò, e disse:
“Sei emozionato, vero?”
Non dissi nulla, non ci riuscii, ma sì, ci aveva preso, di nuovo: ero così emozionato che mi veniva quasi da piangere.
“Ci pensò io a te”, disse inginocchiandosi con un sorriso malizioso stampato in viso.
Ricordo che la vidi inginocchiarsi di fronte a me e mettersi il mio pene in bocca, il mio pene che sembrava una noce di carne, tanto era moscio.
Ricordo il calore di quella sua bocca che mi avvolse. La sentii tirare, succhiarlo e il mio uccello rispondere. Lo sentii crescere rapido dentro la sua bocca.
Susy, la mia Susy, che ora mi sta facendo un pompino, proprio a me, pensai.
Intanto la pioggia continuava a cadere, senza tregua.
Susy prese a fare avanti e indietro con la bocca, io chiusi gli occhi e cercai di godermi il momento.
Poco dopo, forse trenta secondi dopo, sentii il piacere diventare troppo intenso, incontrollabile. Cercai di pensare a mia nonna mentre era al bagno, al mio primo cane avvelenato da una polpetta, allo scioglimento dei ghiacci, alla tabellina del sette, cercai di pensare a qualsiasi cosa potesse distrarmi, ritardare quell’imminente ondata di piacere, ma non resistetti e fu talmente tanto e sconvolgente il piacere, che non feci in tempo a dire a Susy di togliersi. Venni dentro quella sua splendida bocca. Venni come mai ero venuto, il mio seme usciva fuori come se sgorgasse da una sorgente inesauribile e mentre godevo pensavo che avevo fatto una cazzata a non dirle di togliersi, che era una cosa brutta, che se anche per tutti era una puttana, per me non lo era, ma era anche vero che Susy non si stava staccando. Continuava ad andare avanti ed indietro anche se se ne doveva essere sicuramente accorta che ero venuto: da quanto ne sentivo uscire doveva averne la bocca piena. Poi, mentre pensavo tutto ciò, sentii un rumore, in lontananza, un rumore strano, che capii più tardi, troppo tardi, che tipo rumore fosse: era il rumore che sentivo spesso nei film ambientati nel medioevo o giù di lì, era il rumore che fa una spada tolta con decisione dal suo fodero. Ma lì per lì non ci badai. Rimasi un altro istante ad occhi chiusi, incapace di aprirli, e incapace di parlare, di fare qualsiasi cosa. Volevo che quel momento durasse in eterno. La mia Susy col mio uccello in bocca. Che cosa divina che era.
L’ “avanti e indietro” di Susy andò scemando, fino a fermarsi. Ed era un bene perché iniziava a farmi un po’ male. Mugugnò qualcosa che sembrò un “basta”, e la sentii iniziare a sfilarsi il mio pisello dalla bocca, quando udii un rumore metallico, qualcosa che fendeva l’aria. Un istante, e poi un gemito soffocato. Sentii Susy stringere la bocca su di me, facendomi male. Riaprii gli occhi e vidi. Vidi la testa di Susy attaccata al mio pene, al mio copro, come se non fosse successo nulla. Pochi istanti, poi la bocca mollò la presa e la testa cadde all’indietro, staccandosi completamente dal collo e dalle spalle. Cadde a terra facendo un rumore sordo, rotolò un po’ e poi si fermò. Il sangue prese a schizzare impazzito dal suo collo decapitato. Il busto rimase in equilibrio sulle ginocchia per poco, poi mi cadde addosso, facendomi quasi perdere l’equilibrio.
Guardai il corpo di Susy a terra, poi la sua testa mozzata. Susy, la mia Susy, ora non era nient’altro che una testa mozzata e un corpo decapitato. Carne morta. Susy, la ragazza con cui mi masturbavo una volta sì e l’altra pure, ora non viveva più. Non era possibile. Rimasi pietrificato per qualche secondo, poi mi gettai a terra per soccorrerla, per fare qualcosa. Presi la sua testa e cercai goffamente di rimetterla sul collo, sul corpo. La carezzavo e le ripetevo tra le lacrime che l’amavo. Nel frattempo, iniziai sentire grosse gocce d’acqua cadermi addosso. Con l’ultimo sprazzo di raziocinio mi chiesi: ma come fa a piovere qua sotto? Ci misi poco a capire a gocciolare non era acqua. Guardai il soffitto, da cui mi accorsi che stava penzolando qualcosa. Io ci stavo preciso sotto, ma capii subito che si trattava di una testa. E ci avrei scommesso qualsiasi cosa sul fatto che era di una ragazza.
Sentii la mia vescica svuotarsi da sola e bagnarmi mutande e pantaloni. In lontananza qualcuno rise. Presi il capo di Susy, la mia adorata Susy, tra le braccia, lasciai il motorino lì – non sarei stato in grado di metterlo in moto – e scappai via a piedi, correndo il più veloce che potevo.

3.
Quando sentivo dire: “Gli sono venuti i capelli bianchi dalla paura”, pensavo dicessero una cazzata, un’esagerazione, che fosse una leggenda metropolitana, invece no, è tutto vero. L’ho provato sulla mia pelle.
Di quella sera, l’ultima cosa che ricordo è l’aver raccolto la testa di Susy e di esser scappato, e poi me che correvo disperato e a perdifiato. Poi più niente.
Mi hanno detto che entrai nel bar semivuoto perché stava chiudendo, c’erano pochi clienti e rimasero tutti scioccati nel vedermi tutto imbrattato di sangue, affannato, con i capelli bianchi e con una testa in mano. Poi feci pochi passi e svenni.
Ricordo poco anche dei giorni successivi. Ricordo un ospedale, flebo, siringhe. Poca roba. Ricordo invece quando mi portarono qui, in questo carcere psichiatrico, ricordo i giornalisti e le telecamere, tutti ad aspettare che arrivassi. Qualcuno che mi chiamava “pazzo”, qualcun altro “mostro”. Ricordo le domande degli psichiatri, degli avvocati, dei magistrati su quella sera, quella benedetta e insieme maledetta sera, quella che, se non fosse successo quello che poi successe, sono sicuro avrei ricordato come la sera più bella e più fortunata della mia vita.
Ricordo la mia risposta, la mia versione di come andarono i fatti – che poi è quella che ho raccontato qui, a voi – detta e ridetta mille volte, e a cui mi è stato sempre ribattuto che erano tutte cazzate che mi ero inventato, che Susy l’avevo ammazzata io, decapitandola con un oggetto, forse una spada, che poi feci accuratamente sparire; che sul posto non c’erano altre impronte digitali, o di piedi, al di fuori delle mie e di quelle di Susy, e che non c’era nessun’altra testa mozzata appesa al portico. Il movente poi: una volta venuto a sapere dello scherzo che gli altri mi volevano tirare con la complicità di Susy, io, furibondo, costrinsi la povera Susy a farmi del sesso orale, per poi farla fuori subito dopo.
Ma non era vero. Non era vero niente. Loro non lo sanno quanto io l’amavo Susy, credo di esser stato l’unico ad averla amata sul serio la povera Susy. La mia adorata Susy.


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Villa Rometti by Jacopo Marocco is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.
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