2.
Quella sera cenai. Come al solito mia nonna mi aveva preparato un sacco di portate: un primo, due secondi, diversi contorni. Sembrava più che fossi al pranzo di un matrimonio che ad una semplice cena a casa. Mangiai tutto: mi piaceva quello che mi preparava e poi sarà stata l’estate o sarà stato il posto, ma avevo sempre appetito quando stavo da lei.
Finito di mangiare decisi di uscire e di andarmi a fumare due o tre tiri di sigaretta da qualche parte, come facevano quelli che fumavano sul serio, che fumavano dopo i pasti per “digerire”. Ma più di tre o quattro boccate non riuscivo a fumarne, compravo le sigarette giusto per offrirle a Susy, ma ero intenzionato ad iniziare a fumare sul serio, volevo anche io quel fascino che donano le sigarette a chi ne tiene una tra le dita.
Presi la bici – era così degradante girare in bici mentre tutti avevano il motorino, ma io non potevo portare lo scooter che avevo in città lì da mia nonna, sia perché avremmo dovuto affittare un qualche furgoncino per trasportarlo, e sia perché così i miei erano più tranquilli – ed andai a chiamare Matteo, notando che nel cielo nuvole grigio scuro si andavano avvicinando sempre più l’un l’altra.
Matteo aveva la fortuna di avere entrambi i genitori fumatori, così la casa era sempre impregnata dell’odore di fumo, tanto che lui poteva fumare tranquillamente in camera sua, semplicemente avvicinandosi alla finestra, ma nascosto dietro le persiane chiuse. I suoi non avrebbero notato nessun odore sospetto. Così fumai lì, da Matteo. Quella sera riuscì ad arrivare a fumare più di metà sigaretta, senza sentire la testa girare, e ne fui orgoglioso.
Guardammo un po’ di televisione, poi decidemmo di uscire, di andare alla “Curva”, così chiamavamo il posto dove ci ritrovavamo. La “Curva” non era nient altro che uno slargo a ridosso di una vera e propria curva di una stradina che, dal paese di mia nonna, andava verso un altro minuscolo paese di tre o quattro case e, siccome era una strada poco transitata, avevamo, anzi, avevano – perché l’abitudine di andare lì era iniziata due inverni prima, quando io non c’ero -, eletto quel posto, quello slargo, a ritrovo ufficiale del gruppo.
Salimmo in due sul motorino di Matteo e, sotto un cielo sempre più intenzionato a piovere, partimmo in direzione “Curva”.
Trovammo diversa gente alla “Curva”, anche qualche ragazzo dei paesi limitrofi: succedeva spesso perché molti venivano per Susy, altri a trovare Manuel per prendere un po’ di fumo, altri ancora per ammirare l’ultima modifica di Mirko. Venivano lì per i ragazzi più cool del gruppo. Ma quella sera, quando arrivammo, Susy non c’era. E mi dispiacque la cosa perché lei era quasi l’unico motivo che mi aveva portato ad andare alla “Curva”, dove ormai non mi sentivo più così a mio agio: le sempre più frequenti battute su me e Susy, spesso poco “eleganti”, fatte sulla falsariga de”La bella e la bestia”, e l’estensione a dismisura del gruppo, di cui a quel punto conoscevo più solo un quarto dei componenti, avevano cambiato i miei sentimenti sul quelle persone che abbandonavo ad ogni fine estate e ritrovavo ad ogni inizio estate successiva.
I ragazzi di fuori quella sera erano lì per fumare un po’ dell’erba che Manuel iniziava a prendere in quantitativi sempre più grandi per rivenderla. Contando anche i ragazzi dei paesi vicini, saremmo state quasi una trentina di persone quella sera: una lunga schiera di scooter parcheggiati in modo disordinato, che finivano per occupare anche buona parte della carreggiata.
La maggior parte delle persone stava intorno a Manuel – che incartava canne come un giamaicano impazzito -, mentre il resto era diviso in vari gruppetti: chi pomiciava, chi parlava di marmitte, chi spettegolava, chi parlava di macchine, chi di quanto fosse stronzo quello, chi di quanto fosse stronza quell’altra, chi di vestiti e chi di marche di sigarette. Matteo, mio cugino, cercava di partecipare un po’ a tutti i discorsi, utilizzando frasi fatte in base al tema che si trovava ad affrontare, giusto per non prendere posizione su nulla e rimanere sul vago. Io invece mi limitavo a stargli vicino, ma in silenzio, realizzando sempre più quanto con quelle persone avessi più poco a che fare, quanto non mi trovassi più a mio agio in un gruppo che un tempo adoravo, ma che adesso era diventato troppo grande, e composto da persone a me sconosciute e che mi consideravano appena. Ma tutto ciò, in parte, lo comprendevo: per la maggior parte del tempo, per tutto il resto dell’anno lì non c’ero, e del gruppo di un tempo non c’era più quasi nessuno – alcuni si erano trasferiti, altri erano cambiati. Quello che non capivo, quello che mi amareggiava di più era che anche Matteo, che lì ci stava tutto l’anno, non fosse considerato un granché. Era curioso perché sembrava che ci considerassero entrambi degli sfigati, trattandoci con un’odiosa aria di sufficienza. E poi molta gente del gruppo originario, per vari motivi, non ne faceva più parte, e sebbene Sara e Luca ancora ne facessero parte, sembravano esser cambiati anche loro, riservandoci lo stesso trattamento. Forse erano cresciuti, mentre noi no. O forse erano semplicemente diventati più stronzi, non lo so. Io me ne iniziai ad accorgere quell’estate, anche se forse la cosa era iniziata tempo prima, ma Matteo no, non se ne accorgeva, o forse faceva finta di non accorgersene. Non voleva accorgersene. Preferiva quello alla solitudine, ma c’è differenza tra l’indifferenza e la solitudine? Spesso si preferisce essere male accompagnati, piuttosto che rimanere soli. In realtà, spesso, è molto più leale la solitudine di alcuni individui che ti sono vicino.
Rimanemmo lì alla “Curva” per un po’, in attesa di spostarci in paese più tardi: quella sera sarebbe iniziata la festa paesana, anche se i lampi e i tuoni che si andavano avvicinando non facevano presagire nulla di buono. Poi successe una cosa davvero strana: Andrea, il palestrato, mi chiese di andargli a comprare le sigarette al bar tabacchi in paese. Ciò era strano, per diversi motivi: primo perché Andrea non mi aveva mai rivolto parola, forse un accenno di saluto qualche volta, ma mai nient’ altro; secondo perché quando gli dissi che se voleva potevo offrirgliela io una sigaretta, rispose che no, voleva un pacchetto intero, nuovo; terzo, era strano perché anche Manuel e Mirko insistettero affinché andassi – ed anche con loro non è che avessi tutta questa confidenza; e quarto, Matteo fu particolarmente accondiscendente a lasciarmi il suo motorino per andare, cosa che non faceva mai perché ne era gelosissimo.
Cercai di non prenderla come un’ imposizione di Andrea, una sorta di prepotenza da parte sua, di degradazione della mia persona, quasi che fossi stato il suo schiavo: nemmeno “per favore” mi aveva chiesto. Per orgoglio non gli chiesi i soldi per comprare le sigarette, né quale marca fumasse perché già lo sapevo: chi viene messo in disparte osserva tutto, come un cane che se ne sta a cuccia osserva il padrone. L’osservazione come forma di partecipazione.
Al bar mi scocciava molto farmi vedere a comprare le sigarette, ma ormai ero lì, ormai avevo accettato di fare questa “cortesia” a quel muscolo gonfiato e quindi pazienza, mi dissi.
Sussurrai la marca di sigarette al barista, che non capì, ovviamente, così dovetti ripetere più forte. Chesterfield da venti morbide. Avevo paura che da un momento all’altro si avvicinasse al bancone qualche mio parente, qualche vicino di mia nonna, insomma qualcuno che potesse dirle che mi aveva visto a comprare sigarette. La cosa mi avrebbe dato fastidio: il mio pacchetto di sigarette l’avevo comprato al distributore automatico una volta chiuso il bar, di sera tardi, quando non c’era nessuno in giro.
Per fortuna, non arrivò nessun parente o conoscente di mia nonna al bancone, così presi di corsa le sigarette dalle mani del barista, le misi in tasca e pagai. Feci per uscire di corsa ma, nella fretta, mi scontrai addosso a qualcuno. Mi scusai in maniera talmente veloce da non accorgermi contro chi ero andato addosso, ma quando me ne accorsi mi prese un colpo. Era Susy, la mia Susy.
Mi sentii avvampare in viso.
“Scu scu scu sa io no no non ti avevo vista.” Dissi balbettando – una cosa, quella del balbettare, che mi succedeva solo in momenti di forte stress.
Lei mi disse di non preoccuparmi, poi mi fece cenno di aspettare, così prese due birre dal frigo del bar, le pagò e tornò da me:
“Hai da fare?” mi chiese.
“Ve ve veramente, do do dovrei portare le sig sig arette ad Andrea”, dissi sempre più agitato: non mi ero mai trovato a fare un dialogo così lungo, e da solo per di più, con Susy.
“Chissenefrega”, disse lei tutto insieme. “Andiamoci a bere queste birre da qualche parte.”
Rimasi in silenzio. Non riuscivo a credere che Susanna Santini, detta Susy, l’amore della mia vita, la ragazza più bella del mondo, avesse pronunciato quelle parole. Io e lei a bere birra insieme.
“Di di dici a a alla Cu Cu Cu Curva?” Cercavo di non balbettare, ma non ci riuscivo, anzi, più cercavo di controllarmi meno ci riuscivo.
“No, ma che curva, non ho voglia di stare con quei deficienti, andiamo….” ci pensò su, poi disse: “…andiamo alla Cava!”
Rimasi esterrefatto per due motivi: primo perché aveva apostrofato gli altri alla “Curva” come dei “deficienti”, e non pensavo affatto che la pensasse come me a riguardo; secondo perché aveva menzionato la “Cava”. La “Cava” era un posto fuori del paese, relativamente vicino, una cava di pietra, dismessa, frequentata solo dalle coppiette che ci andavano ad appartarsi. Oddio, pensai, vuole scopare. Susy vuole scopare con me.
Cercai di essere il più disinvolto possibile e risposi “va bene”, senza balbettare, in contemporanea con un tuono che fece tremare i vetri del bar.
Salimmo in due sul motorino di Matteo, l’aria era elettrica, carica di cattivi presagi che si avvicinavano col temporale, e partimmo in direzione “Cava”. Ero preoccupato per Matteo che mi stava aspettando, ma gli avrei scritto un sms non appena arrivato alla Cava, spiegandogli la situazione, sperando che mi avrebbe capito e pregandolo di non dire nulla a nessuno. Mi preoccupai anche delle sigarette di Andrea il palestrato, e del fatto che non gliele potevo consegnare subito, ma cercai di non darlo a vedere. Al fatto che forse stavo per perdere la verginità non riuscivo a pensare, altrimenti sarei andato a sbattere.
Alla “Cava” non ci arrivammo: un temporale estivo, di quelli rapidi ma potenti, che da molto annunciava il suo arrivo, ci beccò a metà strada. Diedi gas al motorino, ma poco dopo sentii Susy urlare qualcosa che non capii per via dell’aria che avevo contro e che mi entrava nelle orecchie. Così rallentai e mi misi in ascolto, chiedendo di ripetere.
“Villa Rometti”, fece, “andiamo a ripararci lì!”
Annuii e dirottai automaticamente il motorino dove diceva Susy.
Un minuto dopo eravamo al coperto sotto il porticato d’ingresso della villa.
Villa Rometti era una villa antica, costruita secoli e secoli addietro e appartenuta per molto tempo ad una potente famiglia della zona. Non era abitata, ma era comunque tenuta bene perché conteneva importanti quadri ed affreschi al suo interno. Si diceva che lì ci avesse dormito Galileo Galilei per riposarsi durante un viaggio verso Roma. Forse era una voce, una leggenda, ma non era l’unica che riguardava la villa…
Scendemmo entrambi dal motorino.
“Devo mandare un messaggio, scusami” fece Susy, mettendosi a picchiettare velocemente con il suo pollice, dall’unghia smangiucchiata che tanto mi piaceva, sulla tastiera del suo cellulare.
“Non ti preoccupare, fai pure, anche io devo mandarne uno.” Le risposi, constatando con felicità che non avevo balbettato.
La pioggia continuava a picchiare forte e l’aria si era di colpo rinfrescata. Mi guardai intorno, e mi passò un brivido e non so se era perché avevo freddo o perché quel posto mi metteva paura.
“Non c’è campo”, disse Susy preoccupata. Vistosamente preoccupata. Ma era normale lì, il paese era circondato da montagne e il segnale non arrivava dappertutto.
Io che non avevo nemmeno iniziato a scriverlo il messaggio, lasciai perdere. Dissi:
“Spio spio spioverà a momenti, appena smette ci spostiamo e mandi quanti sms vuoi” E mi sforzai di sorridere.
Susy rimase un attimo con lo sguardo perso, pensierosa, poi prese le birre. Poco dopo, con la faccia scocciata, disse:
“Oh, non abbiamo un apri-bottiglia, che scema che sono stata a non prenderlo.”
Chiesi a Susy di darmi le birre, presi dalla tasca l’accendino, lo misi a contrasto tra il mio dito indice, con cui stringevo il collo della bottiglia, e il tappo. Poi feci leva e, al secondo tentativo, feci saltar via il tappo prima di una e poi dell’altra bottiglia. Mi sentii molto figo a fare una cosa del genere, e forse lo pensò anche Susy per un momento, o almeno così credetti, perché non appena aprii anche la seconda birra lei mi prese a sé e mi baciò. Sì, mi baciò. Un bacio rapido, veloce, ma comunque un bel bacio.
Io rimasi di stucco, impietrito, incapace di pensare, gioire, piangere o fare qualsiasi altra cosa. Era il secondo bacio che davo ad una ragazza, ma poteva essere tranquillamente considerato il primo visto che la prima volta l’avevo dato in terza media ad una della mia classe, facendo il gioco della bottiglia: un bacio a stampo con un goffo accenno di lingua seguito da uno schiaffo di lei.
Mentre io ancora cercavo di calmare la tempesta emotiva che avevo in corso dentro di me, Susy si sistemò sulla sella dello scooter, disinvolta, come se non fosse successo nulla. Mi chiese una sigaretta che io, ovviamente, le diedi subito.
Eravamo nella penombra. Sulla strada, a pochi metri dal porticato dove ci trovavamo noi, c’era un lampione che permetteva al buio di non avvolgerci totalmente. E la cosa non era negativa visto che il posto dove ci trovavamo non aveva nulla da invidiare, in quanto a spettralità, alla casa di Norman Bates di Psyco. Eravamo abbastanza fuori dal paese: nei dintorni non c’erano case, o se c’erano, erano disabitate, e poi… e poi c’era quella storia sulla villa…
“A che pensi?” mi chiese Susy.
“Nulla” dissi io rapido, sforzandomi di fare un sorriso rassicurante, forse più per me che per lei.
La pioggia sembrò diminuire di intensità. Pensai che se non avesse piovuto, a quell’ora, in paese il gruppo musicale di liscio avrebbe iniziato già a suonare e i virtuosismi della fisarmonica si sarebbero sentiti fin lì, facendoci sentire un po’ meno soli. Ma pensai anche se non avesse piovuto non saremmo stati lì…
Guardai il soffitto del porticato.
“A qualcosa stai pensando sicuro, sembri così preoccupato…” disse lei aspirando una bella boccata di fumo dalla sigaretta. Era bella sempre Susy, ma quando fumava diventava un non so che, una specie di dea.
“No, giuro!” dissi accendendomi una sigaretta anche io, pregando Dio, o chi per lui, di non tossire, di non avere giramenti di testa o addirittura nausea – una volta, dopo aver fumato, mi venne una nausea tale che stetti un buona mezz’ora a fare respiri lunghi e profondi, tipo quelli che si preparano per l’apnea, per riprendermi, stando sempre lì per lì per vomitare.
Ci fu un po’ di silenzio, imbarazzante, per me, non per Susy, credo. Poi lei disse:
“Credo di sapere a cosa stai pensando….” E bevve una bella sorsata di birra.
Io mi chiesi se non mi avesse davvero capito, perché sarebbe stato davvero imbarazzante visto che tra le mie preoccupazioni non c’era solo il posto spettrale dov’eravamo. No, c’era anche il fatto che mi trovavo da solo con lei, con Susanna detta Susy, la “nave scuola” dei ragazzi del paese, in un posto isolato e lontano da occhi indiscreti. E la cosa mi spaventava, come può spaventare qualcosa quando non lo si conosce ancora. Qualcosa come il sesso.
“Stai pensando alla figlia del Conte vero?”
La sua domanda arrivò improvvisa, come il primo tuono che aveva annunciato il temporale che ora si stava scatenando. Guardai Susy, rimasi immobile, pensando alla possibilità di mentirle, di dirle che no, non stavo pensando alla figlia del Conte, ma alla fine annuii. Sì, era vero, stavo pensando – oltre che a fare l’amore con lei, a come sarebbe stato, a come l’avremmo fatto, al fatto che portavo con me un preservativo ormai scaduto che avevo preso ad un banchetto per la prevenzione dall’Aids di fronte alla scuola anni addietro – anche alla storia di quella ragazza.
Villa Rometti (terza parte)
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