1.
Le ho provate tutte. Non ha funzionato nulla. Se mi fosse preso l’Alzheimer, o qualsiasi altra malattia che ti fa scordare chi sei, o comunque cose del tuo passato, non mi sarei lamentato. Sarebbe stato un giusto compromesso. Avrei sofferto per la malattia, sì, ma almeno non avrei sofferto per quest’altra cosa, ben peggiore, a mio avviso…
Ho provato a dimenticare. Ma come si può dimenticare una cosa simile? C’è chi ci riesce, chi c’è riuscito. Io no. E non mi sono mica rassegnato subito. Ho fatto passare diversi anni, pensando che il tempo avrebbe fatto la sua parte, “che domani dai, andrà meglio”, e invece no. Non è andata meglio per un cazzo. Anzi. Come la goccia che scava la roccia, questo pensiero nel tempo si è divorato quasi tutto quello che c’era dentro me.
E hai voglia a dire: “è stato un incidente, non hai colpe”. Hai voglia a sentirsi dichiarare innocente da un tribunale. Hai voglia a sentirsi dire: “Hai visto? L’ha detto pure il giudice che non è colpa tua”. Forse è vero, ma poi c’è un altro giudice, più severo, che quasi mai te la fa passare liscia. È un giudice che ti porti dentro, non smette mai di dire la sua, che ti tormenta e che prende il nome di coscienza. La mia non m’ha mai perdonato, e per quanto ci possano essere migliaia di cose a mia discolpa, non mi crede affatto innocente.
Domenica ventisei marzo duemilasei.
È curioso come una data abbia significati diversi per ognuno di noi. Ad esempio, per alcuni quella data, domenica 26 marzo 2006, può significare qualcosa di piacevole, chessò, la nascita di un figlio, il primo bacio, la prima volta, un “sì”, insomma, qualsiasi fottutissima cosa positiva da associare per sempre a quella dannata data. Per altri, invece, quella data sarà per sempre associata a qualcosa di spiacevole, di negativo. Per altri come me.
Mi viene sempre da chiedere come sarebbe stata la mia vita se quel cazzo di lunedì pomeriggio non fossi passato in quel posto, in quel preciso istante. Chissà adesso che farei, con chi sarei, dove. Lo spartiacque della mia vita.
Il prima e il dopo.
Il dopo che è stata una discesa agli inferi.
Ricordo ancora l’istante quando vi entrai. Fu nel preciso istante in cui i miei occhi si incontrarono con quelli di Fabio.
Fabio Rondini, classe 2001, all’epoca aveva cinque anni. Cinque maledetti anni. Quel giorno, se non fosse successo quello che poi successe, Fabio l’avrebbe ricordato come il giorno in cui aveva imparato ad andare in bici senza rotelle. Aveva sicuramente provato quella piacevole sensazione, che forse abbiamo provato tutti, che arriva quando, dopo qualche incespicamento iniziale, riesci ad affondare una pedalata dietro l’altra senza cadere, iniziando a sentirti un tutt’uno con la bici, e in un equilibrio quasi magico prendi velocità, e per la prima volta né le rotelle, né le mani di un adulto stanno lì a sostenerti. E a te sembra quasi di volare.
Penso proprio che Fabio abbia provato queste sensazioni. Mi piace pensarlo. E mi immagino sua madre, quel giorno, che appena vide suo figlio iniziare a filare sulla bici senza alcun sostegno, dirgli dietro: “Stai Attento!”
“Stai attento!”, il mantra che ogni mamma ripete al suo bambino. Anni prima, la mamma di Fabio, come tutte le altre, avrà visto il proprio figlio, un bel giorno, iniziare a camminare senza più farsi aiutare. Lì ha capito che su quelle stesse gambe un giorno si sarebbe fatto uomo e che con quelle gambe si sarebbe allontanato da lei, così anche allora gli avrà detto “Stai attento!”, un po’ per paura che cadesse e un po’ per paura di rimanere sola. Le mamme sono così, in una parte profonda di loro stesse non vorrebbero mai staccarsi dai loro cuccioli, maledetti dottori che tagliano i cordoni ombelicali! Ma “Stai attento!”, ripetuto di continuo, perde il suo significato, il suo valore, diventa solo un rumore di fondo per i bambini, che così non prestano più attenzione. Come Fabio, che in un attimo di distrazione della mamma, uscì fuori dal cancello di casa e, senza minimamente frenare, attraversò con la sua piccola mountain bike gialla la strada. La strada dove io stavo passando. Doveva aver preso parecchia velocità, perché io me lo vidi spuntar fuori all’ultimo.
Non riuscii a frenare, se non dopo averlo investito in pieno.
Ricordo il suo sguardo, i suoi occhi trasformarsi in un attimo da interrogativi, a stupiti, a terrorizzati. Poi ricordo il rumore del suo corpo sul cofano, come quello di un cocomero troppo maturo che cade per terra. Poi il suo corpicino che balzava in avanti e la sua testa battere sull’asfalto senza fare alcun rimbalzo.
Io rimasi in macchina immobile per qualche secondo, incapace di credere che fosse successa una cosa del genere. A me. Poi scesi di corsa e mi avvicinai a Fabio: aveva vistosi rivoli di sangue che gli scendevano da un orecchio, dal naso e dalla bocca. Gli occhi sbarrati, stavolta inespressivi.
La madre arrivò poco dopo. Scosse quel corpo non so quante volte, tanto che alcuni passanti dovettero intervenire e fare forza per staccarglielo – non io, io non feci nulla, osservavo e basta, io ero altrove, in un cinema, seduto a vedere il film di uno in macchina che prende sotto un bimbo e rimane lì fermo a guardare. Spettatore di me stesso.
Dopo aver appurato che il figlio era morto, la madre iniziò a ripetere ossessivamente, tra le lacrime, che il suo bambino aveva imparato ad andare in bici senza rotelle quello stesso giorno.
“Ha imparato solo oggi, solo oggi!”, ripeteva disperata.
Mi si scagliò addosso, ad un certo momento, prese a picchiarmi e io non feci niente per difendermi, forse ero sotto-shock, forse lo ritenevo giusto. La separarono da me i Carabinieri. Gli stessi che appurarono, studiando la frenata che feci appena urtai il bimbo, che andavo piano, che andavo nei limiti. Non so perché andavo così piano, di solito si va sempre più forte dei limiti di velocità – che sono, francamente, ridicoli -, ma quel giorno ero al di sotto. Forse perché così non avrei scontato nessuna pena, appesantendo ancora di più il mio senso di colpa.
Ho provato a dimenticarmi di tutto questo. Di Fabio, di sua madre, degli occhi di Fabio.
Non ce l’ho fatta, ed ora eccomi quassù. Quassù al sesto piano del mio palazzo.
Dopo, mi dico, sarà tutto finito, non farò più del male a me stesso e, soprattutto, a qualcun altro.
Salgo sul cornicione. Non guardo giù, non voglio guardare giù, ma il solo pensiero di farlo mi fa gelare, mi prende un forte formicolio alle mani e ai piedi. Qualcuno dice che la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare, non lo so, forse sì, forse no, boh.
Faccio un bel respiro e mi decido a fare tutto e subito, altrimenti va a finire che poi ci ripenso, così…. uno, due, tre e Jump, come direbbero quelli che fanno Bungee Jumping, solo che io non ho attaccato nulla ai piedi, nessun elastico e sotto di me non c’è nessuna rete protettiva.
Mi tuffo nel vuoto e accade tutto in tre istanti.
Nel primo istante sento che prendo una velocità incredibile, l’aria nelle orecchie fa il rumore di un treno che entra in galleria. Sento una paura mai provata, qualcosa di innaturale. Sento ogni muscolo contrarsi. L’uomo non è fatto per volare. Frazioni di secondo in cui l’istinto di sopravvivenza fa il suo lavoro e io realizzo che non voglio più morire, non così almeno, ma ormai è tardi.
Nel secondo istante capisco che ho fatto una cazzata a non guardare giù prima di buttarmi: esattamente sotto di me, il figlio dei Gianserrelli, quelli del terzo piano, sta giocando con qualcosa, forse delle macchinine, sul marciapiede. E forse ha un presentimento, perché lo vedo guardare su nel momento esatto in cui gli sono precisamente sopra e a pochi metri.
Nel terzo istante vedo gli occhi del figlio dei Gianserrelli trasformarsi in un attimo da interrogativi, a stupiti, a terrorizzati.
2.
Ricordo che qualche tempo fa, uscendo dal palazzo, m’imbattei in un gruppetto di bambini che stava schernendo uno di loro. Gli urlavano contro “Grassone”, “Palla di lardo”, e il classico: “Cicciabomba”. I bambini non sono di “sinistra”, come dice qualcuno, ma sono dei veri e propri nazisti.
Quando si accorsero di me, il gruppetto si dileguò, lasciando lì il bersaglio dei loro insulti. Forse pensarono che fossi il padre del bambino. Quest’ultimo se ne stava sul marciapiede, in disparte. Era in lacrime, incapace di ribattere qualsiasi cosa e colpevole solo di pesare troppi chili in più rispetto a quelli che dovrebbe pesare alla sua età. Quel bambino in sovrappeso era il figlio dei Gianserrelli. Il suo essere grasso mi ha salvato la vita. Lui è morto sul colpo, schiacciato dal mio corpo lanciato in caduta libera, ma io no. Io sono sopravvissuto, il suo corpo mi ha fatto da materassino. Lui è morto ed io no. E anche stavolta, sono assolto da ogni colpa a livello giuridico. Sono praticamente un killer seriale di ragazzini, e nemmeno un giorno di galera debbo fare. Per il giudice la mia condizione è già di per sé una giusta condanna. Già, perché ora sono paralizzato dalla testa ai piedi. Sono praticamente diventato il sarcofago di me stesso. Schiavo dei miei pensieri ossessivi, dei miei sensi di colpa. Dei miei doppi sensi di colpa. Mi piscio e mi cago addosso, e non ho più l’uso della parola. Parola che mi servirebbe tanto per chiedere ad Ulrika, la mia badante, di mettermi un po’ di stricnina nel prossimo bicchiere d’acqua, ma so che anche se potessi chiederglielo, non lo farebbe mai: non è un’assassina come me, e non è così stupida da togliere di mezzo la sua fonte di sostentamento. Meglio così, visto l’andazzo, c’è sempre il forte rischio che, semmai Ulrika mi preparasse davvero un bicchiere d’acqua alla stricnina, spunti dal nulla un ragazzino assetato e se lo beva tutto d’un fiato.
FINE
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