1.
Agli investigatori dirò che quello che avevo trovato lì, non lo avevo mai trovato da nessun’altra parte. E non si può dire che non avessi cercato: ero stato con donne, con uomini. Con donne e uomini contemporaneamente. Disperato, era andato perfino con animali, ma niente. Avevo pensato anche ai bambini, ma fortunatamente la cosa mi ripugnava.
Le avevo provate tutte: mi ero fatto pisciare addosso, fatto cagare addosso. Avevo pisciato e cagato addosso a mia volta. Mi ero fatto legare, frustare. Avevo legato e frustato a mia volta. Mi ero infilato e fatto infilare qualsiasi cosa nel culo.
Niente.
Niente di straordinario.
Niente che mi mandasse fuori di testa.
Niente che corrispondesse a quello che cercavo.
Solo piccoli momenti di piacere, niente più.
Agli investigatori spiegherò che ogni città ha i suoi luoghi del piacere, della perversione, tutti comodamente segnalati in un’utilissima guida.
Ad ogni lettera dell’alfabeto, una o più voci sulla guida.
Ad ogni voce, una o più perversioni.
Ad ogni perversione, uno o più luoghi dove andare a svuotare le palle.
Alla voce G, per dirne una, trovate la parola Glory hole: letteralmente “buchi della gloria”, del piacere. Sono quei buchi che solitamente si trovano nei bagni pubblici più lerci che esistano. Bagni di autogrill, di cinema, di stazioni dei bus o dei treni. Buchi larghi quanto un pugno, fatti nelle pareti divisorie dei cessi. Ci infili il cazzo e aspetti che qualcuno dall’altra parte te lo prenda in bocca o in mano.
Io più di una volta li provai. E devo dire che non li trovai per niente male. Smisi di utilizzarli quando, una volta, alla fine di un servizietto, mi ritrovai l’uccello mezzo maciullato: non seppi mai chi me lo conciò in quel modo. Forse un camionista, forse un rappresentante di cravatte o di saponette, chissà.
“É la pe-cu-lia-ri-tà di questi ‘cosi’, di questi buchi: non può mai sapere chi c’è a lavorartelo dall’altra parte.” Dirò così agli agenti, scandendo bene la parola “peculiarità” al solo fine di dare più effetto alla mia confessione.
Altro esempio della Guida?
Lettera S, Scambi di coppia.
Voglio essere sincero, con gli scambisti sono sempre stato sleale. Non essendo sposato, né fidanzato, prima di iniziare una serata “scambista” caricavo sulla mia Alfetta 1100 una puttana qualsiasi. Le spiegavo il suo compito, la pagavo in anticipo e poi andavamo insieme in qualche parcheggio incustodito – o qualsiasi altro ritrovo scambista segnalato dalla guida.
Bastava fare qualche giro, notare e farsi notare. Non occorreva altro che lampeggiare un paio di volte con i fari abbaglianti per esprimere consenso. Poi bastava seguire o farsi seguire dalla coppia scelta in qualche motel. La serata finiva sempre con me che mi scopavo la vera moglie di qualcun altro e quel qualcun altro che si scopava la mia finta moglie.
Sulla guida, alla lettera P, troverete la parola Postillonage: è un massaggio particolare. Nello specifico sono segnalati i posti dove trovare donne esperte in questo tipo di massaggio.
“Cazzo è il “Postillonage”?” Mi chiederà uno degli sbirri che mi interrogherà.
”Ohh, il Postillonage, agente, è qualcosa di divino.” dirò io orgoglioso di quella domanda, poi proseguirò con fare saccente:
“È il massaggio della prostata, chiamato anche ‘mungitura della prostata’: consiste nel farsi introdurre il dito medio nell’ano, ehm…diciamo quasi tutto, per poter poi stimolare la ghiandola prostatica.”
“La ghiandola prostatica?” mi chiederà un altro agente con aria dubbiosa.
“Sì, proprio quella, agente. Alla scuola di polizia non vi insegnano che la ghiandola prostatica è considerata la zona erogena più sensibile nell’uomo?”
“Qui le domande le facciamo noi!” dirà seccato il poliziotto.
“Certo agente. Come vuole lei, agente. Comunque, quel lavoretto lì, il Postillonage, fa ritardare l’orgasmo, aumentandone spaventosamente l’intensità! E credetemi, funziona!“
Molte altre sono le voci presenti in quella benedetta Guida:
B, bondage; bukkake;
F, fisting; fetish;
P, pissing; piedi; giochi di plastica;
O, orge;
ecc. ecc..
Io quelle voci, quelle perversioni, le avevo provate quasi tutte. Quei luoghi, visitati quasi tutti, ma niente.
Niente di straordinario.
Niente che mi mandasse fuori di testa.
Niente che corrispondesse a quello che cercavo.
Solo piccoli momenti di piacere, niente di più.
Agli investigatori dirò che mi sentivo come un surfista, un surfista del sesso. Un surfista che non cercava la grande onda, ma il grande orgasmo.
Ero diventato uno dei massimi conoscitori e praticanti delle perversioni sessuali umanamente possibili. Avevo scopato più di un pornodivo bisessuale in pensione, ma il grande orgasmo non era ancora arrivato. Questo era quello che cercavo. Questa era la mia ossessione. La mia dannazione.
2.
Agli investigatori dirò che tutto cambiò, poi, quando portai mia nonna all’ospizio.
Fu lì che iniziò tutto.
Fin da piccolo ricordo che l’idea dell’ospizio a mia nonna era sempre andata a genio. Contrariamente a molti suoi coetanei, non scacciava l’idea di finire i suoi giorni in una casa di riposo. Diceva che lì sarebbe stata, oltre che servita e riverita, anche in compagnia e, cosa fondamentale, non avrebbe pesato su nessuno dei suoi figli. Nel tempo aveva collezionato numerosi dépliant di varie case di riposo. Quando poi morì il nonno volle dare concretezza a questo suo desiderio. Nessuno della famiglia si oppose: tutti sapevano cosa avrebbe comportato mettersi una vecchia non più del tutto autosufficiente in casa.
Andavo a trovare mia nonna ogni domenica. Ogni volta la trovavo in ottima forma.
Solitamente, ad ogni visita, facevamo una passeggiata nella pineta dell’ospizio. Lunghe passeggiate tra pini vecchi quanto gli ospiti della struttura.
Mentre passeggiavamo mia nonna mi raccontava sempre entusiasta di come veniva trattata bene lì e di quante amicizie faceva. In particolare era felice del fatto che lì dentro la maggior parte degli ospiti erano messi, a suo dire, molto peggio di lei. Tutto ciò la faceva sentire più giovane. Inoltre, molti dei suoi nuovi amici erano arteriosclerotici, idrocefali, dementi, o affetti dal morbo di Alzheimer. La cosa la divertiva molto perché con loro poteva barare a carte, fingersi di essere una persona diversa, raccontargli qualsiasi cosa e combinare altre piccole cattiverie, senza che loro capissero minimamente qualcosa. Insomma, a sentirla, sembrava che fosse capitata nel paese dei balocchi.
La domenica il regolamento dell’ospizio permetteva ai familiari di rimanere a cena nella struttura e di accompagnare a letto i propri parenti. Erano pochissimi, però, i familiari che usufruivano di questa concessione. Praticamente nessuno.
Una domenica, non avevo nulla da fare, così decisi di approfittare di questa opportunità e di rimanere con la nonna anche per la cena.
Quella sera, nella piccola mensa dell’ospizio, di persone esterne all’istituto, di parenti insomma, ce n’era solo una: io.
Mia nonna provava un certo piacere perverso nel vedere gli altri anziani soli, senza nessuno dei loro cari lì con loro. Non faceva altro che ripetere a tutti che io ero Alex, il suo bravo nipote che voleva tanto bene alla nonna e che non la lasciava mai sola. Tutti gli altri mi guardavano come se fossi venuto da un altro pianeta: escluse le infermiere, gli anziani della struttura non erano abituati a vedere gente sotto gli ottanta anni.
Qualche anziano ogni tanto si avvicinava e mi chiamava con un altro nome, probabilmente quello del proprio figlio o nipote. Sembravano api attirate dal miele. Mia nonna però era pronta a rompere ogni idillio:
“Lui si chiama Alex, e non è tuo figlio!”, “Lui è mio nipote, non il vostro!”. Che stronza mia nonna. Scacciava gli altri vecchi come se fossero gatti di strada in calore.
Quella domenica sera, dopo cena, un’infermiera mi disse che potevo accompagnare mia nonna a letto, ma subito dopo avrei dovuto lasciare la struttura. Questo diceva il regolamento della casa. Mi diede delle pillole da dare alla nonna e ci accompagnò fino alla porta della camera.
Quando entrai, scoprii che mia nonna divideva la stanza con un’altra persona. Non me ne aveva parlato.
Per non disturbare, iniziai a parlare sottovoce. Mia nonna mi disse che potevo fare il casino che volevo perché la sua compagna di stanza era praticamente un vegetale: non si muoveva dal letto, non parlava e dormiva quasi tutto il giorno.
“Per me” disse “è come dividere la stanza con un’orchidea”.
Neanche un minuto dopo aver preso le pillole, mia nonna già dormiva. Spensi l’abat-jour e andai verso la porta. Stavo per uscire, quando sentii un rantolo, qualcosa di simile ad uno di quei versi che si sentono nei film dell’orrore. Un urlo soffocato. Mi girai verso mia nonna, ma non poteva essere lei. Poi sentii di nuovo quel rumore: ora la fonte di quel verso era chiara.
La luce lunare che filtrava dalle finestre mi permetteva di muovermi nella stanza tranquillamente, senza accendere nessun lume.
Mi avvicinai al letto della signora in stato semi vegetativo. Era girata su un fianco, verso la finestra. Il viso era illuminato dalla luna. Era sveglia. Mi fissava con gli occhi fuori dalle orbite. Dalla bocca non riusciva a far uscire altro che quel rantolo. Era praticamente senza capelli e aveva un’aria spettrale. Sembrava la versione femminile ed in carne d’ossa del famoso quadro di Munch.
Rimasi un attimo interdetto, poi mi accorsi che la vecchia aveva un braccio incastrato tra il materasso e il bacino. Pensai che probabilmente era quello a turbarla. La liberai e l’anziana donna sembrò subito rilassare il proprio viso. Cessò anche quell’urlo sordo.
Pochi secondi dopo la vecchia aveva già chiuso gli occhi e con la bocca spalancata iniziò a russare rumorosamente.
Restai un attimo a guardarla. Rimasi per un po’ a contemplare quel mucchio d’ossa. Sembrava uno di quei cani molto anziani che, trascinandosi per le strade, aspettano solo la morte.
Mentre la guardavo, qualcosa si mosse nelle mie mutande. Forse, per un attimo, il mio inconscio si liberò dalle gabbie della coscienza, emergendo con l’idea che mi avrebbe cambiato la vita. Non ero affatto sicuro di ciò che stavo per fare, ma tanto valeva provare.
Afferrai il corpo della vecchia e lo posizionai quanto più possibile vicino al bordo del letto. Lei riaprì gli occhi. Prese di nuovo a fissarmi, sempre con la bocca spalancata. Di nuovo emise quel rantolo. Non esitai: mi tirai fuori l’uccello e glielo infilai velocemente in bocca. Come una neonata a cui viene dato il ciuccio, la vecchia si calmò immediatamente, si addormentò e forse presa da un istinto inconscio, iniziò a succhiarmelo.
Oh, quella bocca calda, liscia e piena di bava…
Resistetti pochi secondi: venni allagandole la bocca. Quell’orgasmo mi fece quasi svenire.
Fu come se avessi stappato una bottiglia di champagne invecchiata di cento anni e liberato ogni mio istinto più represso. Le ginocchia per il gran piacere mi cedettero. Caddi a terra, e mentre io accasciato sul pavimento piangevo di gioia, la vecchia sul letto prese a tossire come un ossesso. Tossì per un po’, poi si zittì. Mi alzai, senza guardarla, in pieno periodo refrattario, mi riabbottonai i pantaloni e uscii di corsa dalla stanza, senza curarmi d’altro se non di me stesso.
In macchina verso casa, quella domenica sera, non riuscivo a non sorridere. Ero felice. Felice! Finalmente aveva trovato il mio Santo Graal. Oh, lo avevo cercato così tanto. Nessuna orgia nazista o serata sadomaso; nessun Glory Hole, nessun buco di culo, nessuna figa; nessuna stimolazione prostatica, nessun fisting; nessun bondage; niente e nessuno era paragonabile alla bocca di quella vecchia.
Quella meravigliosa bocca bavosa e senza denti non aveva rivali, non conosceva limiti.
3.
Agli investigatori dirò che lo venni a sapere dalla nonna la domenica seguente.
Durante il solito giro nella pineta mia nonna mi disse che la sua compagna di stanza era morta. Morta soffocata. Proprio una settimana prima, proprio la sera in cui mi ero fermato a cena all’ospizio e avevo accompagnato mia nonna a letto. Alla notizia raggelai, ma mi tranquillizzai subito quando mi disse che la morte era dovuta a cause naturali: la vecchia era morta soffocata nel proprio vomito.
Comunque era sicuramente morta per causa mia: le avevo schizzato talmente tanta roba in gola da farla vomitare. Il vomito copioso l’aveva soffocata, ma aveva anche coperto lo sperma. Così nessuno si accorse di niente. Nessuno sospettò di nulla. Tutti pensarono: “Era arrivata la sua ora, era vecchia”.
Vecchia come le successive dodici vittime.
Vecchie in un ospizio.
Vacche che attendevano solo di essere portate al macello.
Ai parenti delle vittime, tutte morte nella stessa maniera, tutte soffocate nel vomito, non parve vero non dover pagar più la costosa retta dell’ospizio. Nessuno indagò.
Nessuno ebbe mai un dubbio sulla naturalità di quelle morti. A nessuno risultò strano che per tre mesi, ogni domenica notte, un’ospite donna – sempre in stato semi-comatoso – moriva soffocata nel proprio vomito.
4.
Agli investigatori confesserò che sapevo che tutte quelle anziane donne morivano per colpa mia, ma che non potevo farci nulla. Non riuscivo a fermarmi.
Da quando avevo scoperto il mio glory hole nella bocca di quella vecchia; da quando avevo capito che tutto ciò che mi occorreva era una bocca di vecchia senza denti, iniziai a passare tutte le domeniche alla casa di riposo.
Mi bastò poco per diventare il figlio o il nipote di tutti gli anziani ospiti. Né mi ci volle molto tempo per entrare nelle grazie delle infermiere, che rimanevano molto toccate dalla “sensibilità” che dimostravo verso quei vecchietti. In poco tempo mi guadagnai il lusinghiero e comodo titolo di “nipote dell’Ospizio”. Così, dall’alto di questo privilegiato ruolo conquistato, non fu difficile per me scoprire le stanze delle mie vittime preferite: vecchiette cerebralmente andate.
Per dodici domeniche consecutive, dopo aver messo a dormire mia nonna, entravo nelle stanze di povere anziane – incapaci di intendere e di volere – e ne violavo la bocca. Le stanze non erano mai chiuse a chiave: gli ospiti della struttura, una volta presi i ‘farmaci della buonanotte’(così li chiamavano le infermiere), si facevano otto, nove ore filate di profondissimo ed innocuo sonno. Pericoli di fughe non ce n’erano.
5.
Agli investigatori spiegherò poi che arrivò quella maledetta domenica sera: quella dannata domenica sera in cui avrei dovuto fottere la mia tredicesima bocca di vecchia.
Si trattava di una vecchietta sulla ottantina, affetta da una grave demenza senile: quando non era presa dal panico per non essere riuscita a finire i compiti per il giorno dopo, cercava disperatamente mamma e papà chiedendosi come mai non fossero venuti a riprenderla per portarla via da lì – quel “lì” che lei credeva fosse la scuola elementare.
Quella domenica feci tutto quello che avevo fatto nelle precedenti domeniche: feci il giro in pineta con mia nonna, cenai con lei, l’accompagnai a letto, le diedi le pillole ed infine uscii nel corridoio, pronto per la caccia. Ero finalmente pronto: la bocca della vecchietta demente mi aspettava alla camera 33, solo due stanze dopo quella di mia nonna. Dieci passi e sarei arrivato. Ma in quel mare di costanti che si ripetevano da settimane, non avevo considerato una variabile. Una variabile di nome Olga. Olga, l’infermiera russa che aveva una cotta per me e che quella sera faceva il turno di notte. Me la trovai davanti appena chiusa la porta della stanza di mia nonna. Sembrava avere un’aria minacciosa.
“Ciao Olga!” dissi un po’ intimorito.
Olga, dal suo metro e ottanta d’altezza tuonò:
“So cosa piace te!”
“Sì? Cosa?” chiesi titubante dal mio metro e settanta. Non mi piaceva il suo tono.
“Tu essere vecchio puorco!”
Temevo il peggio. Poteva Olga aver capito tutto?
Poi, tirando fuori da dietro la schiena una bottiglia di vodka, disse:
“Tu essere vecchio puorco che piace scopare ubriaco di vodka!!!”
“Ah sì, certo, io adoro la vodka.” dissi rilassato.
La seguii in uno stanzino al piano di sopra, rimandando il mio appuntamento al buio a più tardi.
Olga tirò fuori la vodka, un mazzo di carte da poker ed anche una bustina piena d’erba. Farcimmo alla meno peggio qualche cartina e ci mettemmo a giocare a strip poker.
Finito il gioco e finita la bottiglia di vodka eravamo entrambi talmente ubriachi da non riuscire nemmeno a scopare. Fumammo l’erba rimasta. Olga era cotta, io pure. Lei si sdraiò su una poltroncina e s’addormentò all’istante. Io, che avevo perso a strip poker, nudo come un verme e ubriaco fino al midollo, uscii nel corridoio: avevo una missione da compiere. Ma avere una missione non bastò.
Presi a girare per l’ospizio senza sapere bene dove stessi andando, né dove mi fossi esattamente. Ero nudo e non me ne curavo: l’alcool non mi faceva sentire il pericolo di incontrare qualcuno. Non mi rendevo conto di ciò che facevo.
Camminai un po’, per riprendermi, ma non servì a molto. Così pensai di andare direttamente nella stanza della mia prossima vittima: lì avrei respirato un po’ d’aria fresca dalla finestra della sua stanza. Una volta ripreso un po’ di spirito, avrei fatto quello che da diverse domeniche facevo in certe stanze dell’ospizio, poi, finito il mio ‘lavoretto’, sarei tornato nello stanzino per rivestirmi.
Girai a lungo, ma alla fine trovai la stanza che cercavo.
Aprii la porta ed entrai. Andai verso la finestra e mi affacciai. Feci cinque o sei boccate d’aria fresca. Richiusi: non mi sentivo meglio, ma se non altro mi ero svegliato un po’. Presi a toccarmi l’uccello per esser pronto al momento giusto.
Anche se la parte di stanza dove c’era la vecchia era molto buia, riuscii ad avvicinarmi senza difficoltà al letto. Ormai avevo una certa esperienza.
La vecchia era già girata su un fianco. La spostai ancor più verso di me. L’unica nota negativa era che non riuscivo a vederla bene in viso perché era dal lato opposto alla finestra. Poco importava, l’essenziale era sentire, non guardare. Mi presi l’uccello e, alzandomi sulla punta dei piedi, lo portai alla bocca dell’anziana. Era chiusa. La forzai con le dita. S’aprì, ed io entrai. Un secondo, due. Poi la bocca si serrò di nuovo. Non mi trattenni: cacciai un urlo bestiale. Si accese la luce.
Con la luce accesa potei felicemente constatare che il mio pene era ancora attaccato al corpo. Meno felicemente constatai che chi mi aveva quasi evirato era mia nonna.
Mia nonna che, con ancora l’interruttore della luce in mano, prese la dentiera nel bicchiere sul comodino e se la mise in bocca.
Mia nonna che, dopo avermi insultato con tutti gli aggettivi più degradanti che conosceva e tirato addosso qualsiasi cosa le capitasse sottomano, mi disse che lei sapeva fin dall’inizio cosa stesse succedendo in quell’ospizio.
Mia nonna, che la notte in cui avevo posseduto oralmente la sua compagna di stanza, la mia prima vittima, non dormiva come io credevo.
Mia nonna, che ci aveva messo poco a capire cosa suo nipote stesse combinando nell’ospizio, ma che per la vergogna era rimasta zitta.
Mia nonna, che era l’unica a sapere quello che facevo la domenica dopo averla messa a letto. L’unica a sapere che non erano naturali quelle morti.
Mia nonna, che il giorno dopo mi avrebbe denunciato.
6.
Finito l’interrogatorio, due dei tre investigatori presenti alla mia confessione, usciranno dalla stanza.
Uno rimarrà con me.
Una volta soli, l’agente rimasto mi salterà addosso e, prendendomi per il collo, dirà:
“Brutto figlio di puttana, t’ho riconosciuto subito, sai?! E così tu ti sei scopato mia moglie mentre io mi sono scopato una puttana qualsiasi. Eh?!”
“Beh, dov’è la differenza?” risponderò.
“Ah, fai pure lo spiritoso, eh!?” dirà l’investigatore un attimo prima di iniziare a prendermi ripetutamente a pugni in faccia.
Ci vorranno quattro uomini per staccarmelo di dosso prima che il mio volto si trasformi in una maschera di sangue. Nessuno capirà mai il perché di tanta rabbia.
Finito l’interrogatorio, uno dei due investigatori che usciranno dalla stanza, andrà di corsa in bagno. Lì inizierà a sciacquarsi in maniera ossessiva la bocca. Lo farà per tutto il giorno. La possibilità, seppur remota, di aver preso in bocca l’uccello di quel pervertito che ha appena interrogato, in una delle sue abituali soste nei vari bagni pubblici del Paese, lo farà uscire di testa.
Finito l’interrogatorio, l’altro dei due investigatori usciti prenderà mezza giornata di permesso. Correrà a casa della propria madre, vedova. Andrà in camera sua e le preparerà una valigia. La prenderà e, senza spiegarle nulla, la caricherà in macchina. Destinazione: ospizio.
Finito l’interrogatorio, l’unica chiamata che mi verrà concessa non la farò al mio avvocato.
Né a mia madre.
Né a mio padre.
No, l’unica chiamata che mi verrà concessa prima di iniziare la vita da carcerato, la farò al direttore della Guida a luci rosse.
Alla segretaria che mi risponderà dirò che devo comunicare una cosa importantissima al direttore. Urgentissima.
Al direttore della guida dirò che deve assolutamente aggiungere una voce alla sua Guida:
O, come OSPIZIO.
FINE
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